Risarcimento danni per infedeltà coniugale
La Cassazione riconosce al coniuge tradito il diritto di ottenere il risarcimento danni. Secondo la legge, infatti, la violazione degli obblighi contrattuali stipulati durante il matrimonio permette di integrare un illecito civile.
Quanto costa investigatore privato a Milano?
Quanto si prende l'investigatore privato?
Quanto costa un investigatore privato per scoprire un tradimento?
Quanto costa pedinare?
In generale possiamo affermare che le agenzie investigative lavorano secondo un tariffario prestabilito che va dai 40 ai 100 euro l'ora per ciascun agente impiegato, escluse spese e iva ed eventuale rimborso chilometrico per i pedinamenti in auto o in moto.
A livello di tariffe, per un servizio efficace non si può scendere al di sotto di un minimo di 500 euro. I detective privati generalmente propongono tariffe giornaliere tra 500 e 1.000 euro, oppure tariffe orarie di circa 50 € all'ora per agente operativo.
Quanto costa un investigatore privato?
Indice dei contenuti
Sono diverse le ragioni che possono rendere necessario un investigatore privato, che può far luce con professionalità e competenze su vicende familiari, commerciali, lavorative, che possono avere anche rilevanza nell’ambito di un processo. Conoscere il costo di un investigatore privato è importante prima di conferire l’incarico, così da programmare bene le spese e valutare se ne vale la pena.
Quali sono le voci di spesa che incidono sui costi di un’investigazione privata? Questa è un’altra domanda chiave a cui si dovrà dare risposta, così da comprendere quali sono le variabili in gioco.
?? Quanto costa un investigatore privato?
Il costo va da 30 a 90 euro l’ora per ogni investigatore
?? Quali fattori incidono sulla spesa?
Durata dell’investigazione e numero di investigatori coinvolti
??? Come scegliere un investigatore privato?
Sulla base delle tariffe e dell’esperienza
?? Come potersi permettere la spesa dell’investigatore privato?
Con la pianificazione e il risparmio
Cosa può fare un investigatore privato?
Quando si pensa ad un investigatore privato, vengono in mente i classici pedinamenti che hanno lo scopo di acquisire le prove di un’infedeltà coniugale. In realtà la casistica dell’investigazione privata è molto più ampia e le indagini possono comprendere ambiti che vanno al di là della sfera familiare.
Solitamente si pensa al traditore come ad una persona egoista ed egoriferita, estremamente narcisista, distaccata, senza scrupoli. Ed in effetti nella maggior parte dei casi l’infedele ha proprio queste caratteristiche.
ESATTO!!! E’ PROPRIO COSI. QUESTO E’ LATTEGGIAMENTO SCIENTIFICO DEL TRADITORE.GLI STUDI ED ALTRE CAZZATE. SONO SOLO CAZZATE CHE RACCONTONO…………….
INFEDELTA' CONIUGALE - Da 30 anni smascheriamo l'infedele, FATTI NON PAROLE!!!
Quanto costa investigatore privato a Milano?
Quanto si prende l'investigatore privato?
Quanto costa un investigatore privato per scoprire un tradimento?
Quanto costa pedinare?
In generale possiamo affermare che le agenzie investigative lavorano secondo un tariffario prestabilito che va dai 40 ai 100 euro l'ora per ciascun agente impiegato, escluse spese e iva ed eventuale rimborso chilometrico per i pedinamenti in auto o in moto.
A livello di tariffe, per un servizio efficace non si può scendere al di sotto di un minimo di 500 euro. I detective privati generalmente propongono tariffe giornaliere tra 500 e 1.000 euro, oppure tariffe orarie di circa 50 € all'ora per agente operativo.
Quanto costa un investigatore privato? La guida completa per il 2023
da Centro Studi Moneyfarm 30 Settembre 2023, 11:53 am
Indice dei contenuti
Sono diverse le ragioni che possono rendere necessario un investigatore privato, che può far luce con professionalità e competenze su vicende familiari, commerciali, lavorative, che possono avere anche rilevanza nell’ambito di un processo. Conoscere il costo di un investigatore privato è importante prima di conferire l’incarico, così da programmare bene le spese e valutare se ne vale la pena.
Quali sono le voci di spesa che incidono sui costi di un’investigazione privata? Questa è un’altra domanda chiave a cui si dovrà dare risposta, così da comprendere quali sono le variabili in gioco.
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Il costo va da 30 a 90 euro l’ora per ogni investigatore
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Durata dell’investigazione e numero di investigatori coinvolti
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Sulla base delle tariffe e dell’esperienza
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Con la pianificazione e il risparmio
Cosa può fare un investigatore privato?
Quando si pensa ad un investigatore privato, vengono in mente i classici pedinamenti che hanno lo scopo di acquisire le prove di un’infedeltà coniugale. In realtà la casistica dell’investigazione privata è molto più ampia e le indagini possono comprendere ambiti che vanno al di là della sfera familiare.
-Prezzo Investigatore privato per indagini sospetto infedeltà del Partner a Milano.
Investigatore Privato Costi - Prezzi - Tariffe investigatore privato – Costi Agenzia Investigativa- la tariffa oraria applicata ad una investigazione privata ha un costo che varia da un minimo di euro 50.
INFEDELTA’ CONIUGALE-RISARCIMENTO DANNI
La sentenza n. 18853 del 15 settembre 2011 emessa dalla Suprema Corte di Cassazione Sezione I Civile ha sancito il principio di risarcibilità dei danni derivanti dall’infedeltà coniugale.
La relazione extraconiugale può determinare un trattamento risarcitorio, il tradimento di un partner può comportare un equo risarcimento in favore del coniuge tradito, secondo i generali criteri della responsabilità civile (articoli 2043 e 2049 Codice Civile), laddove si attesti che tale comportamento abbia comportato danni alla salute e alla dignità della persona tradita.
Ogni prova raccolta dall’agenzia Investigativa IDFOX Milano , professionisti “autorizzatati” dell’agenzia di investigazioni IDFOX è utilizzabile in sede giudiziaria.
Parla con i professionisti, Ti forniamo le prove per uso Legale. Siamo concreti, riservati, professionali con competenze e know-how.
Tempi difficili per l’infedeltà coniugale.
Agenzia Investigativa IDFOX Since 1991
Via Luigi Razza 4 – 20124 – Milano
TEL. 02344223 (r.a.) h24 026696454
www.idfox.it - mail: max@idfox.it
Risarcimento danni per tradimento coniugale
Tradimento coniugale: risarcimento danni
In caso di tradimento coniugale il partner infedele rischia di subire non solo l'addebito della separazione, ma anche il risarcimento dei danni in favore del proprio (ex) coniuge. In particolare il risarcimento danni per tradimento coniugale può essere richiesto in sede civile, quando l'infedeltà, magari non rivelata dal partner ma scoperta da terzi o attraverso i social, lede la dignità e la reputazione del coniuge tradito, al punto tale da provocare effetti devastanti sul suo stato di salute.
Indice
* Tradimento: definizione
* Tradimento coniugale: segnali per scoprirlo
* Tradimento: perché avviene
* Tradimento: perdonare o lasciare?
* Risarcimento danni per tradimento coniugale
Tradimento: definizione
Il tradimento, in senso generale, viene definito come l’atto con cui si viola di un patto, un obbligo, una promessa. Si può tradire il proprio coniuge, un amico, il proprio Paese. Il tradimento non è obbligatoriamente un atto fisico, ma anche verbale o intenzionale. Tradire significa anche parlare di qualcosa che doveva essere taciuto, infrangere una promessa. Ecco perché non si tradisce solo una persona, ma si tradiscono i suoi sentimenti, come la fiducia, la speranza, le aspettative.
Non solo: chi tradisce mente. Ecco perché il tradimento presuppone sempre una bugia, un falsificazione di ciò che si è, di ciò che si pensa, di ciò che si fa. Talvolta il traditore e la vittima del tradimento sono la medesima persona: ciò accade quando, dopo aver mentito, ci si auto-tradisce con atteggiamenti o affermazioni incoerenti rispetto a ciò che si è fatto o pronunciato poco prima.
Come vedi è riduttivo pensare al tradimento come un mero gesto fisico, tuttavia nei prossimi paragrafi ci concentreremo su quello che convenzionalmente viene definito tradimento coniugale. Quando il rapporto di monogamia viene a mancare, cosa succede? Perché succede e come affrontarlo?
Tradimento coniugale: segnali per scoprirlo
Andiamo con ordine. Hai notato dei comportamenti insoliti nel tuo partner e temi che possa tradirti? Confrontali con alcuni segnali d’allarme che fra poco andremo ad elencarti, perchè potrebbero rivelare proprio un tradimento da parte sua. Abbiamo utilizzato il condizionale non a caso, perché se da un lato questi sono i cambiamenti “classici” che si notano quando uno dei due partner inizia una relazione extraconiugale, dall'altro taluni di questi segnali possono denotare anche una situazione tutt'altro che legata al tradimento: il tuo partner soffre di esaurimento nervoso, è logorato dal lavoro, ecc. In questi casi è quanto mai utile andare a fondo della questione tramite un dialogo onesto e sincero.
Ad ogni modo, ecco quali sono i 5 segnali da non sottovalutare:
1. Controllo quasi maniacale del proprio cellulare - Si è iscritto da poco su Facebook ed è diventata già la sua passione? Usa spesso il cellulare, ogni minimo squillo, messaggio o notifica attira la sua attenzione. E' sempre li che smanetta, ma lo lascia immediatamente quando ti avvicini. Quando siete a tavola lo tiene sempre vicino, ma rivolto con lo schermo verso il basso. Occhio, potrebbe essere che tra i suoi contatti, ce ne sia uno a cui è maggiormente interessato;
2. Nuovi impegni, nuovi hobby, nuove attività - Non è mai stato un grande sportivo, ma improvvisamente ha cominciato a frequentare una palestra e ora sembra che non ne possa più fare a meno. Ha preso l’abitudine di andare a giocare a calcetto con gli amici e torna sempre tardi la sera con la scusa di una sosta al pub per una birra tra amici. Oppure si è interessato ad un’attività che preferisce non condividere con te. Questo potrebbe voler significare che ha bisogno di indipendenza, di spazio, oppure che nasconde qualche altra “passione” oltre a quella manifesta;
3. Rinnovato interesse verso il partner - Improvvisamente vuole portarti a cena fuori? Ti accompagna al centro commerciale e insiste per farti un regalo costoso? Compra i biglietti per la partita quando sai che odia lo sport? Se questa cosa ti stranisce, perché non è da lui/lei avere questi atteggiamenti, può essere che stia cercando di farsi perdonare una mancanza, che voglia semplicemente coccolarti, oppure che lo faccia perché sa di aver commesso qualcosa di sbagliato e ora cerca di curare alla meno peggio il senso di colpa;
4. Sicurezza e cura del proprio aspetto fisico - Hai notato che il partner ha decisamente ritrovato l’interesse verso se stesso, la cura del suo corpo, dell’abbigliamento, della forma fisica in generale. Se ciò avviene dopo un periodo di dieta, dunque dopo un dimagrimento importante, dopo una promozione lavorativa o un miglioramento della situazione economica, è giustificabile, normalissimo. Se invece non ci sono eventi che giustifichino questo narcisismo, può essere che esso sia causato da un interesse collaterale alla vita di coppia;
5. Tracce femminili su abiti, in macchina, e così via - Questi segnali non hanno scuse. Di chi sono i capelli che hai trovato in macchina? Perché la camicia è sporca di trucco? Ciò deve farti dubitare seriamente della sua onestà.
Tradimento: perché avviene
Come abbiamo scritto nella premessa di questo articolo, ci sono mille modi per tradire. Libri, articoli e serie tv ce lo dimostrano. Cosa si può considerare tradimento? Fondamentalmente tutto ciò che dovrebbe esistere solo in quel universo chiamato “coppia” e invece si estende altrove. Non c’è solo la sessualità in gioco, bensì anche la tenerezza, la complicità, l’affinità elettiva che dovrebbe esistere solo con il rispettivo compagno, eppure si è estesa anche ad altri soggetti. Per farla breve: possiamo considerare tradimento anche il sexting, ovvero lo scambio di messaggi dal contenuto “inappropriato” se si è parte di una coppia. Inutile nascondersi dietro ad un “Sono solo parole” o “Tanto non è successo niente” perché l’infedeltà prescinde i gesti fisici, invadendo la sfera sentimentale.
C’è un’età in cui siamo più inclini al tradimento? La risposta degli esperti è SÌ. Il periodo più delicato parte dai 30 e arriva fino ai 45 anni. Nella maggior parte dei casi, in questo particolare momento la vita si fa più difficile. Chi non ha figli e non è sposato talvolta può essere intrappolato in una relazione che lo opprime, ma che non si sente di abbandonare. Chi ha figli, invece, si ritrova spesso schiacciato dagli impegni e dalle incombenze familiari. C’è poco tempo per la coppia e a volte mancano le energie. Dopo i 45, invece, i figli dovrebbero ormai essere cresciuti e la coppia ha modo di ritrovare la propria intimità. Pericolo scampato? Mai mettere la mano sul fuoco.
In tutto ciò, spesso ci si chiede: perché ci si tradisce? Siamo certi che, indagando a fondo nel proprio io, tutti potrebbero trovare una giustificazione plausibile. Secondo una terapeuta specializzata nei rapporti di coppia e famiglia a cui L’Internazionale ha dedicato un’interessante articolo, basato su un estratto del libro “L’intelligenza erotica”, pare proprio che le ragioni del tradimento siano molto più complesse di quanto ci si possa aspettare “In tutto il mondo c’è una cosa che le persone che hanno delle avventure mi dicono sempre. Si sentono vive. Mi parlano spesso di storie di perdite recenti, di un genitore morto, di un amico che se ne è andato troppo presto, cattive notizie dal medico. La morte e la mortalità spesso vivono all’ombra di un’avventura, perché sollevano queste domande. È tutto qui? C’è di più? Continuerò così per altri 25 anni? Proverò ancora quella cosa? Questo mi ha portata a pensare che forse queste domande sono quelle che spingono le persone a superare il confine, che alcune storie sono il tentativo di ricacciare indietro la mortalità, un antidoto contro la morte.”
È sempre così? Fondamentalmente no, poiché per quanto sia dura da ammettere, la verità può anche celarsi dietro ad un’attitudine basata solo sulla lussuria, sulla superficialità, sull’inganno. Nonostante ciò la terapeuta di origine belga afferma che “le avventure hanno poco a che fare con il sesso e molto di più con il desiderio: desiderio di attenzione, desiderio di sentirsi speciali, desiderio di sentirsi importanti. La struttura precisa di un’avventura, il fatto che non potrete mai avere il vostro amante, vi porta a volerlo. È di per se stesso una macchina del desiderio, perché l’incompletezza, l’ambiguità, ti fanno volere quello che non puoi avere”.
In questi momenti così delicati, è difficile trovare le parole per esprimere ciò che si pensa, ecco perché ti consigliamo di leggere alcuni dei più celebri aforismi sul tradimento.
Tradimento: perdonare o lasciare?
Bella domanda. Purtroppo non è possibile dare una risposta univoca e applicabile in qualsiasi contesto: sono tante le situazioni, tanti i motivi che determinano un tradimento, tante le implicazioni che investono la coppia e la famiglia, dunque tante le soluzioni che possono essere trovate al problema. C’è chi riesce ad ammettere i propri errori e a risolvere i problemi grazie al dialogo. Al contrario, c’è anche chi vede nel tradimento la fine del proprio rapporto. C'è chi se ne fa una ragione e riesce in poco tempo a mettersi tutto alle spalle, chi vive il tradimento come qualcosa di estremamente doloroso e finisce per avvitarsi ossessivamente intorno al trauma che ha subito fino a bloccarsi, ma c'è anche chi per ripicca e per ferire il proprio partner non vede di meglio che tradire il "partner traditore".
Non esiste, dunque, una soluzione valida per tutti, bisogna lavorare a fondo su se stessi e con il proprio partner, per arrivare a capire qual è la solzione migliore per entrambi. Intanto è possibile inviare una
* lettera a chi ti ha tradito.
Certo, se siamo di fronte ad una unione coniugale, lasciarsi a causa di un tradimento implicherà conseguenze certamente più complesse e delicate. Di cosa stiamo parlando? Della separazione, chiaramente, con tutti gli annessi e connessi. Dal punto di vista pratico ciò significa trovare una sistemazione abitativa per il partner, raggiungere un accordo sull'utilizzo dei mezzi, sulla sistemazione dei figli e sulla ripartizione dei beni comuni oltre che di tutte le spese da sostenere da quel momento in avanti. A tutto questo si aggiunge il distacco fisico ed emotivo dal proprio partner e soprattutto dai propri figli. Se le due parti sono in accordo su tutto si può procedere alla separazione consensuale, che di fatto è il tipo di procedimento attivato dalla stragrande maggioranza delle coppie.
Oggi la separazione si può intraprendere con o senza l’assistenza di un legale presso il Tribunale competente, ovvero quello sito nel luogo dell’ultima residenza comune dei coniugi. Se ci sono tutti i presupposti, è possibile procedere al “divorzio lampo”, intraprendendo la nuova procedura, entrata in vigore con il Decreto Legge n. 132/2014. Questa presuppone due passaggi fondamentali: la convenzione di negoziazione assistita che deve essere svolta con l’assistenza dei legali e la dichiarazione davanti al Sindaco.
Come potrai immaginare, dopo aver scoperto un tradimento e aver deciso di porre fine alla relazione, possono sorgere dei problemi di natura pratica, assistenziale e finanziaria. Non sempre si riesce a trovare un accordo, ecco perché in questi casi si può chiedere l’intervento di un Giudice, di modo che i contrasti vengano appianati nel pieno rispetto dei diritti di ciascuna parte e chiaramente della normativa vigente. Non ci si può rivolgere al giudice di persona: il procedimento è leggermente più complesso, ecco perché è richiesta la presenza di due legali, uno per ciascun parter.
Prima di concludere, è bene accennare alla questione economica. Come forse saprai, dopo la separazione il coniuge più debole economicamente ha il diritto di ricevere l’assegno di mantenimento. Di cosa si tratta? Non è altro che una somma di denaro determinata dal giudice o tramite un accordo tra le parti, che deve essere periodicamente accreditata al coniuge con il reddito più basso, per aiutarlo a vivere dignitosamente.
Se il coniuge non si vede corrispondere l'assegno, può inviare all'ex partner questo
* fac simile denuncia per mancato versamento assegno di mantenimento.
Se questi si ostina a non pagare, allora può presentare un
* ricorso Giudice per mancato versamento assegno di mantenimento.
Anche al momento del divorzio il coniuge più abbiente deve corrispondere al più debole il cosiddetto assegno divorzile, che viene calcolato sul principio di autosufficienza. Cosa vuol dire? In parole povere la natura dell’assegno non è patrimoniale, ma assistenziale; dunque l’entità dell’assegno non deve assicurare la persistenza dello stile di vita condotto durante il matrimonio, ma la sola sussistenza.
Ricordiamo, infine, che l'assegno di mantenimento si applica anche alle unioni civili. Il discorso cambia, invece, per le coppie di fatto: in questo caso il Giudice non può imporre al partner economicamente più forte di versare un assegno di mantenimento in favore dell'altro, tutt'al più può obbligarlo ad assicurargli gli alimenti se l'altro dovesse versare in uno stato di grave bisogno. La situazione cambia radicalmente se ci sono i figli: in una simile circostanza anche per le coppie di fatto è previsto l'assegno per il mantenimento della prole.
Ti ricordiamo, infine, che il diritto all’assegno di mantenimento e all’assegno divorzile decade nel momento in cui la parte più debole economicamente sia anche quella a cui sia stato addebitato il motivo della separazione. Per permetterti di capire meglio di cosa stiamo parlando, ti facciamo un semplice esempio. Se il matrimonio è finito a causa dell’infedeltà della moglie ad esempio, quest’ultima sarà designata come responsabile della rottura e dunque subirà l’addebito del procedimento di separazione. Ciò vuol dire niente assegno di mantenimento, niente pensione di reversibilità e niente eredità. In alcuni casi è altresì possibile che la parte lesa chieda al fedifrago un risarcimento per i danni subiti. L’unico aiuto economico che è possibile richiedere è l’assegno alimentare, che viene elargito solo nel caso in cui il soggetto dimostri di versare in una situazione di grave disagio economico.
Risarcimento danni per tradimento coniugale
Come detto in premessa, oltre all'assegno di mantenimento, il coniuge infedele potrebbe essere tenuto anche ad un risarcimento dei danni non patrimoniali (ex art. 2059 c.c.). A tal fine è importante che il coniuge tradito riesca a dimostrare che le modalità con cui l'infedeltà si è manifestata, ha comportato ripercussioni sul suo stato di salute ed ha leso il suo diritto alla reputazione e all'immagine.
Ai fini del risarcimento danni per tradimento coniugale, occorre fornire prove concrete non solo sull'entità dei danni subiti, ma anche sul nesso di causalità tra il comportamento infedele del coniuge, con tutto quello che ne è conseguito, e i danni subiti.
In questa lista ti proporremo dei consigli generali per capire se c'è la possibilità che il tuo partner ti tradisca, tra i quali c'è anche la possibilità di affidarsi all’agenzia investigativa IDFOX che svolga le indagini al posto tuo, in modo più sicuro ed efficiente.
Ecco alcuni comportamenti da tenere presente, che possono significare una possibile infedeltà:
1-Analizza il comportamento del tuo partner quando lascia il suo telefono in una stanza da solo, poiché se vuole tenerti qualcosa nascosto, sicuramente tenderà a farlo di meno.
2-Controlla nelle chat che prima ti avevo menzionato quali messaggi siano stati cancellati o meno, difatti WhatsApp al contrario di Telegram ti dà la possibilità d'individuare quale siano i messaggi cancellati, questo potrebbe facilitarti molto le ricerche.
3- Accedi alle sue chat online oppure su applicazioni come WhatsApp e Telegram, difatti esse sono usate dalla maggior parte delle persone per messaggiare online, per questo potresti trovare all'interno di esse indizi su una possibile relazione.
4-Accedi al suo calendario, solamente se il tuo ragazzo/ragazza ne fa uso, difatti in esso potresti trovare moltissime informazioni che ti permetteranno di analizzare la situazione ed i suoi impegni lavorativi e non lavorativi.
5-Controlla la sua cronologia all'interno del browser web, stai attento/attenta a non cancellare niente per non farti scoprire e cerca se ci sono chat sospette e link che potrebbero farti sorgere qualche dubbio.
6-L'ultimo metodo che vogliamo analizzare insieme a te è attraverso l'aiuto di un Investigatore Privato dell’agenzia IDFOX, quindi di una primaria 'Agenzia Investigativa di Milano che attraverso la loro esperienza sapranno sicuramente affrontare questa situazione al meglio delle loro competenze fornendoti dati e prove su quanto sta accadendo.
DOMANDA:
Egregio Investigatore privato
Le scrivo a proposito della situazione che sto vivendo da un po’ di tempo.
Dopo aver letto alcuni sms, mail e aver ascoltato alcune conversazioni Skype con la password di mia moglie, e dopo aver messo una cimice nella sua borsa, ho scoperto che essa aveva iniziato una relazione con un altro uomo.
Investigatore Privato, Cosa succede se uno dei due coniugi non vuole
Non c’è alcun valido motivo per opporsi al divorzio tranne un’eventuale riconciliazione dei coniugi.
Non sono rari i casi in cui un coniuge non voglia concedere il divorzio all’altro. Le ragioni alla base del rifiuto possono essere di natura diversa ad esempio per una ripicca, per evitare che l’ex marito o l’ex moglie convoli a nuove nozze o per ragioni economiche posto che con il divorzio si perdono tutti i diritti successori nei confronti dell’ex partner e l’assegno divorzile spetta solo se si versa in stato di bisogno. Pertanto, cosa succede se uno dei due coniugi non vuole divorziare?
La risposta è semplice: si può iniziare una causa in Tribunale, presentando una domanda di divorzio giudiziale.
Il diritto al divorzio infatti è un diritto irrinunciabile, riconosciuto a ciascun coniuge anche senza il consenso dell’altro.
Esiste però una ragione valida per opporsi al divorzio rappresentata dall’eventuale riconciliazione intervenuta tra i coniugi. Posto che per legge tra la separazione e il divorzio deve intercorrere un determinato periodo di tempo, se durante tale periodo la coppia ad esempio dovesse tornare a vivere stabilmente insieme, la separazione si interrompe. Perciò, se i due intendono divorziare, dovranno procedere a una nuova separazione.
Indice
* Come si può divorziare?
* È possibile rifiutare il divorzio?
* Come si può divorziare senza il consenso del coniuge?
* Quando è possibile opporsi al divorzio?
Come si può divorziare?
Il divorzio può essere di due tipi:
* consensuale, quando i coniugi trovano un accordo su come proseguire la propria vita dopo lo scioglimento definitivo dell’unione matrimoniale con riguardo agli aspetti patrimoniali (vedi l’assegnazione della casa familiare o l’assegno di mantenimento) e/o agli aspetti riguardanti i figli (affidamento, collocamento, mantenimento, diritto di visita del genitore non collocatario).
Per divorziare consensualmente i coniugi possono:
* presentare un’istanza congiunta in Tribunale;
* ricorrere alla negoziazione assistita dai rispettivi avvocati;
* effettuare una dichiarazione in Comune davanti all’ufficiale dello stato civile ma solo se non hanno figli minorenni o maggiorenni incapaci o portatori di handicap oppure economicamente non autosufficienti;
* giudiziale, quando manca l’accordo tra i coniugi. In tal caso uno dei può rivolgersi al Tribunale affinché pronunci lo scioglimento del matrimonio, se è stato celebrato dinanzi all’ufficiale dello stato civile, o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, se è stato celebrato in chiesa e poi regolarmente trascritto nei registri dello stato civile.
A proposito del divorzio giudiziale è importante sapere che grazie alla riforma Cartabia, entrata in vigore il 28 febbraio 2023, oggi è possibile presentare con un unico atto, nella specie un ricorso, davanti allo stesso giudice, la richiesta di separazione giudiziale e di divorzio contenzioso.
È possibile rifiutare il divorzio?
Se un coniuge propone all’altro di divorziare consensualmente, ovvero accordandosi tra loro sugli aspetti patrimoniali e/o familiari del divorzio, questi non è obbligato ad accettare la proposta.
Se da un lato però può rifiutarsi di procedere in tal senso dall’altro non può rifiutare il divorzio. Da ciò consegue che essendo il divorzio giudiziale comunque possibile, spetta al coniuge che intende ottenerlo, rivolgersi al giudice.
Non si può quindi impedire il divorzio se uno dei coniugi lo vuole.
Come si può divorziare senza il consenso del coniuge?
Come già anticipato si può divorziare senza il consenso del coniuge chiedendo il divorzio giudiziale.
A tal fine la parte interessata deve rivolgersi a un avvocato, preferibilmente esperto in diritto di famiglia, perché avvii la causa in Tribunale. Affinché sia pronunciato il divorzio, il richiedente può sostenere semplicemente che “la convivenza è divenuta intollerabile” senza dovere per forza dimostrare l’intervenuta crisi matrimoniale.
Il coniuge che ha rifiutato la proposta di divorzio consensuale, non può che prendere atto della volontà dell’ex marito o dell’ex moglie, eventualmente difendendosi in giudizio e sostenendo le proprie ragioni ma non può opporsi alla pronuncia dello/a scioglimento/cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Può anche decidere di non costituirsi in giudizio; così facendo però non potrà esporre il proprio punto di vista al giudice.
Peraltro, il procedimento farà ugualmente il suo corso e si arriverà comunque ad una sentenza di divorzio.
Quando è possibile opporsi al divorzio?
Una ragione valida per opporsi al divorzio è rappresentata dall’intervenuta riconciliazione tra i coniugi, che ha interrotto la separazione.
Per legge è possibile chiedere il divorzio solo dopo che sono decorsi 6 mesi in caso di separazione consensuale o 12 mesi in caso di separazione giudiziale. Se in tale periodo i coniugi dovessero riconciliarsi, la separazione cessa.
La riconciliazione potrà avvenire in forme differenti:
* tacitamente, ovvero con un comportamento che è incompatibile con lo stato di separazione (ad esempio i coniugi tornano a vivere stabilmente insieme);
* oppure con una dichiarazione scritta nella quale il marito e la moglie mettono per iscritto l’intenzione di riprendere la vita matrimoniale.
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In pratica la riconciliazione è l’unico modo per opporsi al divorzio e porta al ripristino della comunione di vita tra i coniugi.
Se la riconciliazione non dovesse sortire effetti positivi, la coppia dovrà procedere a una nuova separazione prima di richiedere il divorzio.
Infedeltà coniugale: non sempre l’adulterio comporta l’addebito. Ecco le prove che bisogna portare nella causa di separazione.
L’infedeltà coniugale, ossia l’adulterio, è vietata dalla legge. Non è reato ma costituisce comunque un comportamento illecito. Sono previste, in particolare, due sanzioni di carattere civile. La prima: chi ha tradito non può chiedere il mantenimento, anche se disoccupato. La seconda: chi ha tradito non è più erede legittimario dell’altro coniuge (diversamente lo sarebbe rimasto nel periodo tra la separazione e il divorzio). Tutto ciò viene sintetizzato con una parola tecnica: “addebito”. Chi tradisce subisce cioè l’addebito con la sentenza di separazione.
Il punto è che non tutti i comportamenti infedeli comportano l’addebito. Lo sono solo quelli che sono causa della rottura della convivenza, che cioè hanno minato il rapporto di fiducia coniugale. Ed allora è bene chiedersi: cosa è considerato tradimento in una coppia? Ad esempio: il semplice fatto di vedersi con un amico o un’amica in un parco, seppur ciò abbia destato le gelosie del coniuge, può considerarsi tradimento? Uno scambio di messaggi o una chat su un social dal contenuto equivoco è tradimento? Una relazione platonica a distanza rientra anche questa nel tradimento? E che ne è delle foto di un ispettore privato che ritraggono uno dei due coniugi entrare in un albergo con uno sconosciuto, senza però immortalare momenti intimi? In ultimo: è tradimento l’aver generato sospetti con comportamenti equivoci in pubblico, facilitando così le maldicenze?
Potrà sembrare strano ma per ognuna delle ipotesi appena elencate c’è stata una sentenza che ha chiarito cos’è tradimento e cosa non lo è. Vediamo dunque di fare chiarezza alla luce delle indicazioni dei giudici.
* Cosa si considera tradimento?
* Cosa non comporta addebito?
* Onere della prova in giudizio
* Cosa si considera tradimento?
Cosa si considera tradimento?
Contrariamente a quanto avviene nella concezione popolare, per la legge il tradimento non è solo il contatto fisico con una persona diversa dal coniuge ma anche la relazione sentimentale a distanza, il legame affettivo tra due persone che non sia pura e semplice amicizia, gli apprezzamenti fisici o lo scambio di foto su una chat WhatsApp. E lo è anche il fatto di aver leso la dignità del proprio coniuge con un comportamento ambiguo manifestato in pubblico.
Insomma, l’adulterio non è solo il rapporto sessuale, il bacio o l’abbraccio: nella nozione di infedeltà coniugale vi è tutta una serie di altre condotte che manifestano un coinvolgimento fisico o emotivo o che semplicemente possono portare alla ragionevole presunzione di ciò. Faremo a breve degli esempi. Ma prima occupiamoci di spiegare quali comportamenti, pur rientrando nel tradimento, non sono sanzionabili.
Cosa non comporta addebito?
Abbiamo detto che il tradimento, per essere punito, deve essere stato la causa principale e assorbente della rottura della fedeltà coniugale. Insomma, il matrimonio deve essere naufragato proprio a causa di esso.
Non c’è quindi addebito quando l’unione coniugale era già in fase critica, destinata cioè a naufragare per altre ragioni. Ecco dunque alcuni esempi in cui il tradimento è giustificato o quantomeno tollerato:
* quando la coppia, prima del tradimento, viveva o dormiva separatamente;
* quando la coppia aveva già manifestato l’intenzione di separarsi;
* quando il coniuge tradisce l’altro come reazione alla scoperta di un precedente tradimento;
* quando il coniuge tradito si era già macchiato di gravi violazioni dei doveri coniugali determinando la crisi del matrimonio: ad esempio condotte violente e vessatorie ai danni dell’altro;
* quando la coppia non ha più, da molto tempo, rapporti sessuali senza un giustificato motivo e comunque senza che vi fosse il consenso di entrambi.
Onere della prova in giudizio
Chi chiede l’addebito deve provare in giudizio non solo la condotta infedele dell’altro coniuge ma anche che questa ha reso intollerabile la convivenza. Al contrario, chi si difende dall’accusa di adulterio, deve dimostrare l’anteriorità della crisi coniugale rispetto all’accertata infedeltà.
Cosa si considera tradimento?
La prova del tradimento non deve per forza consistere in una relazione carnale tra il proprio coniuge e l’amante. Basta anche un fondato sospetto o un rapporto platonico. Ecco cosa la giurisprudenza ritiene tradimento:
* una relazione a distanza, condotta per email o chat, da cui si evinca un coinvolgimento emotivo o un’attrazione fisica;
* uno scambio di messaggi in una chat o tramite un social network dal tono ammiccante o provocatorio o che comunque faccia emergere il suddetto coinvolgimento;
* un comportamento equivoco posto in pubblico, tale da generare maldicenze e screditare la reputazione dell’altro coniuge;
* il sexting, ossia l’invio di materiale (video o fotografico) di natura intima;
* una prova fotografica o un filmato di un comportamento che possa generare il sospetto di una relazione (ad esempio due amanti che si incontrano nel parco la notte o che si danno appuntamento in un hotel) anche se manca poi la dimostrazione del rapporto fisico.
ll diritto alla riservatezza è un diritto fondamentale della persona tutelato dalla stessa Costituzione, che all'art.2 “garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo che nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità". Si tratta di un principio generale, che ha come conseguenza altre norme, e in particolare l'art.15 Cost. relativo all' inviolabilità della corrispondenza. Si tratta di diritti che in generale non sono comprimibili o limitabili neanche in un rapporto coniugale o di convivenza.
In poche parole, il matrimonio o la convivenza non servono ad escludere il rispetto della privacy dei componenti della coppia: il diritto alla riservatezza in quanto diritto personalissimo, permane in capo a ognuno di essi.
Il diritto alla riservatezza, quindi, non può essere violato in alcun modo dalla necessità di provare questioni private: i casi di infedeltà vanno scoperti in altri modi diversamente dallo “spionaggio coniugale”, come ad esempio scegliendo delle agenzie investigative che utilizzino metodi leciti e consentiti dalla legge.
I controlli sui tabulati telefonici, sugli SMS del cellulare, le intercettazioni telefoniche e il controllo delle caselle di posta elettronica non sono consentiti e costituiscono reato penale (art. 616 codice penale in merito alla violazione della corrispondenza ordinaria che si estende anche quella informatica o telematica).
Inoltre l'infedeltà coniugale non comporta nessuna conseguenza sulle leggi di affidamento dei figli: anche in questo caso vige la regola dell'affidamento condiviso.
La violazione dell'obbligo di fedeltà, che determina la separazione della coppia, comporta la sola possibilità di addebito della separazione a carico del coniuge adultero con conseguente diritto al solo assegno alimentare e non a quello di mantenimento (qualora il coniuge versi in uno stato di indigenza) e la perdita di ogni diritto successorio nei confronti dell'altro coniuge.
La Cassazione ribadisce la natura assistenziale dell'assegno di divorzio e precisa che la legge sul divorzio n. 898/1970 non esclude la misura in presenza di una licenziamento disciplinare della ex moglie
La colpa del licenziamento causato dalla condotta penalmente rilevante della donna non fa venire meno il diritto alla misura, soprattutto se per età e condizioni fisiche non è più in grado di reperire un lavoro in grado di garantirle di mantenersi da sola. L'assegno divorzile del resto ha anche natura assistenziale. Questo in sintesi il contenuto della Cassazione n. 37577/2022
La Corte nel decidere non trascura il fatto che la donna sia stata licenziata a causa del reato concretizzatosi nell'avere usufruito di 56 giorni di malattia indebitamente. Non ha però potuto neppure trascurare il fatto che la donna, di anni 57 e invalida al 60%, difficilmente è in grado di riconquistarsi una sua autonomia, stante le difficoltà a reperire una nuova occupazione.
Non rientra nella disciplina dettata dagli articoli 5 e 9 della legge di divorzio che una sanzione comporti la perdita del diritto all'assegno, soprattutto se, com nel caso di specie, non è contestata la situazione di difficoltà economica e la impossibilità per il coniuge richiedente di procurarsi i mezzi necessari per provvedere alle sue necessità.
Sono prova della violazione del dovere di fedeltà, che giustifica quindi l’addebito della separazione le foto che ritraggono il coniuge in atteggiamenti amorosi con un’altra persona quando il matrimonio è in corso
Ammissibile e rilevante la prova del tradimento che il marito ha fornito in sede di separazione e sulla quale ha fondato la richiesta di addebito alla moglie. Non c’è dubbio che le foto prodotte ritraggano la signora in atteggiamenti amorosi con un altro uomo in costanza di matrimonio.
La Corte di Appello di Milano con sentenza n. 1019/2022 conferma l’addebito a carico della donna, come già sancito dal giudice di primo grado.
Una donna impugna la sentenza con cui il tribunale ha dichiarato la separazione coniugale con addebito a suo carico. Impugnazione che però la Corte di Appello di Milano respinge perché, in base all’insegnamento della Suprema Corte di Cassazione: “possono costituire prova della violazione del dovere di fedeltà coniugale e giustificare, pertanto, l’addebito della separazione, le fotografie che mostrano il marito in un atteggiamento di intimità con una donna che, secondo la comune esperienza, induce a presumere l’esistenza tra i due della relazione extraconiugale
Quali sono le conseguenze dell’addebito in caso di separazione o divorzio: gli alimenti e l’eredità.
In caso di separazione con addebito, bisogna versare il mantenimento? La domanda è frutto di un equivoco che merita di essere chiarito. Ciò a beneficio di tutti coloro che, spesso più per questioni di principio, si imbarcano in lunghe e costose cause di separazione e divorzio, rivolte solo ad affermare la propria “estraneità” alla crisi matrimoniale ma senza alcun vantaggio pratico. Infatti, come si vedrà a breve, la cosiddetta «imputazione dell’addebito» non ha alcuna ricaduta su chi dovrebbe versare l’assegno di mantenimento. Le conseguenze infatti ricadono solo su chi il mantenimento lo richiede. Ma procediamo con ordine.
Cos’è l’addebito?
L’addebito è l’imputazione di responsabilità per la fine dell’unione coniugale. In buona sostanza, subisce l’addebito chi ha violato i doveri del matrimonio. Tali doveri sono la fedeltà, la convivenza, la reciproca assistenza materiale e morale, la contribuzione ai bisogni della famiglia, il rispetto per l’altrui dignità.
In pratica, nel momento in cui il giudice emette la sentenza di separazione o di divorzio, dichiara anche – in presenza di specifica richiesta di una delle due parti – se la fine dell’unione matrimoniale è dipesa dalla colpa di un coniuge o dell’altro.
Con l’addebito quindi il giudice attribuisce la responsabilità della separazione o del divorzio al marito o alla moglie, a tutti e due o a nessuno dei due, a seconda delle prove raccolte nel corso del giudizio.
Cosa comporta l’addebito?
L’addebito non comporta obblighi di risarcimento, né sanzioni di altro tipo. Chi tuttavia subisce l’addebito non può:
- chiedere il mantenimento all’ex;
- rivendicare diritti di successione nei confronti dell’ex.
Rinviando la questione del mantenimento al successivo paragrafo occupiamoci per ora della seconda conseguenza: lo stato di erede legittimario. Come noto, un coniuge è erede dell’altro e non può mai essere diseredato. A questi quindi spetta una quota minima del patrimonio del defunto, la cosiddetta “legittima” (di qui appunto il termine “erede legittimario”).
La qualità di erede non si perde per via della separazione ma solo col divorzio. Dunque, se un coniuge muore prima del divorzio, l’altro è ancora suo erede. Tale diritto però si perde se la separazione è avvenuta con addebito.
Con l’addebito bisogna pagare il mantenimento?
Chi subisce l’addebito non deve, perciò solo, pagare il mantenimento all’ex. L’assegno di mantenimento (quello dovuto a seguito di separazione) e l’assegno divorzile (quello dovuto a seguito di divorzio) scattano solo in presenza di una incolpevole disparità di reddito tra i due coniugi e non anche per l’eventuale violazione dei doveri del matrimonio. Sicché, chi è più “ricco” dell’altro dovrà versare a quest’ultimo il mantenimento anche se non subisce l’addebito. L’addebito non incide quindi sulla posizione di chi deve versare il mantenimento ma solo su quella di chi lo deve ricevere (non potendo più pretenderlo).
Ecco perché spesso la battaglia dell’addebito non ha alcun rilievo pratico, come nel caso della moglie disoccupata che chiede l’addebito al marito titolare di reddito da lavoro dipendente. Quest’ultimo infatti dovrà versarle gli alimenti con o senza addebito.
Quando non è previsto l’assegno di mantenimento?
Oltre al caso del coniuge che subisce l’addebito, il mantenimento non è dovuto quando non vi è disparità sostanziale tra i redditi dei due coniugi. Inoltre, non è dovuto se il richiedente ha ancora una potenzialità lavorativa: è in grado cioè di produrre reddito come succede per chi è giovane, formato, con esperienze. Non è poi dovuto quando il richiedente non dimostra che la sua incapacità economica – ossia di poter badare alle proprie esigenze di sopravvivenza – non dipende da propria colpa. Il mantenimento è invece dovuto a chi è malato, disabile, di età avanzata, vive in contesti geografici di forte disoccupazione, ha tentato – senza successo – di farsi assumere.
Con l’addebito bisogna pagare il risarcimento?
L’addebito, abbiamo visto, implica solo la perdita dei diritti successori e del mantenimento. Non comporta l’obbligo di mantenere l’ex, obbligo che deriva invece da un diverso presupposto: quello della disparità economica.
Ci si potrebbe chiedere se con l’addebito bisogna però risarcire l’ex. Ad esempio, il coniuge traditore deve pagare i danni all’altro? Ciò può succedere solo quando la violazione dei doveri del matrimonio incide sui diritti costituzionali del coniuge come l’integrità fisica, l’onore e la reputazione. Quindi, ad esempio, il risarcimento sarà dovuto da parte del coniuge responsabile di maltrattamenti, violenze o che ha tradito in modo plateale, noto cioè alla collettività (con ciò ledendo la dignità dell’altro).
La violenza psicologica nella coppia viene esercitata in diverse modalità, può configurare diversi tipi di reati come i maltrattamenti previsti dall'art. 582 c.p. e gli atti persecutori dell'art. 612 bis c.p.
Violenza psicologica: definizione
La violenza psicologica nella coppia è un tema che presuppone necessariamente un doppio approccio. Occorre infatti analizzare dal punto di vista prettamente psicologico quali sono i comportamenti che si traducono in una violenza psicologica e come questi sono in grado di tradursi in illeciti di rilevanza civile o penale a cui l'ordinamento ricollega determinati effetti.
La definizione di violenza, in base alla definizione che ne ha dato l'antropologa Franciose Heritier nel 1997 è: "ogni costrizione di natura fisica, o psichica, che porti con sé il terrore, la fuga, la disgrazia, la sofferenza o la morte di un essere animato; o ancora qualunque atto intrusivo che ha come effetto volontario o involontario l'espropriazione dell'altro, il danno, o la distruzione di oggetti inanimati".
Come si manifesta la violenza psicologica
La violenza psicologica nella coppia è solo uno dei modi in cui può essere esercitata la violenza da un partner nei confronti dell'altro. La violenza psicologica infatti può essere esercitata in via esclusiva, ma il più della volte a questa si accompagnano la violenza fisica, economica e sessuale. Statisticamente sono soprattutto li uomini ad agire violenza nei confronti della donna, ma non è da escludersi l'ipotesi contraria.
Per quanto riguarda le modalità attraverso le quali la violenza psicologica si può manifestare queste sono senza dubbio le condotte più frequenti:
- isolamento sociale, che si realizza attraverso comportamenti denigratori dei soggetti compresi nella sfera affettiva della vittima, come amici, parenti e colleghi di lavoro. Il carnefice però può anche trovare, volta per volta, delle scuse o delle giustificazioni, per impedire gradualmente alla vittima di frequentare i famigliari e gli amici o di recarsi al lavoro, con conseguente perdita dello stesso. In questo modo il partner diventa dipendente dall'altro, tanto da trasformarsi nel suo unico punto di riferimento;
- condotta controllante, che con l'avvento delle tecnologie si realizza soprattutto con il controllo dei messaggi, delle e-mail, delle chat e dei profili social, ma anche con il monitoraggio degli spostamenti, dell'abbigliamento e delle spese;
- denigrazione, che può essere espressa con insulti diretti alla persona con svalutazioni delle caratteristiche fisiche "sei brutta" "sei grasso" o delle sue capacità intellettive "sei stupida" "con capisci niente"; on svalutazione del ruolo che ricopre nella società "sei una pessima madre", "sei un uomo che non vale niente", "non vali niente come impiegata"; svalutazione dei risultati ottenuti nel lavoro o nello studio; offese pubbliche e ridicolizzazioni;
- accuse e attribuzione di colpe, finalizzate a far apparire come giustificata la condotta del carnefice "è colpa tuta se mi comporto così" "se ti comportassi diversamente non mi arrabbierei così tanto";
- minacce rivolte alla persona o ai suoi cari di cui fanno parte figli, amici o parenti stretti, per costringerla a comportarsi come desiderato dal carnefice. Il manipolatore vittimista può arrivare a minacciare il suicidio se l'altra persona dovesse decidere di lasciarlo/a;
- indifferenza e silenzio: anche la totale indifferenza ai bisogni affettivi del partner è una forma di violenza psicologica. Poiché il soggetto abusante non vede l'altro componente della coppia come una "persona" ma come un oggetto, non è infrequente che dopo una discussione violenta desideri e forzi l'altro ad avere un rapporto sessuale, lo costringa, anche se ammalato/a ad occuparsi delle solite incombenze o rifiuti di accompagnare il partner dal medico, se necessario. Il silenzio o il tono del tutto neuro dell'aggressore è una delle forme più sottili di violenza psicologica, soprattutto se la vittima, ormai esasperata, fa esplodere la sua rabbia e alza la voce, salvo poi sentirsi dire che ha problemi di mente, che esagera, che è fuori di testa.
Gaslighting: la manipolazione psicologica
Una forma particolarmente subdola di violenza psicologica che si riscontra nelle coppie è il anche gaslighting. Il carnefice, attraverso informazioni del tutto false, riesce a insinuare il dubbio nella mente della vittima sulle sue capacità di percezione, memoria, analisi e valutazione della realtà che la circonda. L'obiettivo è di farla sentire confusa, di destare in lei dei sospetti, di farla sentire del tutto inadeguata. L'abusante può arrivare a negare certi fatti della realtà, soprattutto episodi di maltrattamenti o violenza, inventare fatti mai esistiti o mettere in scena, come una recita, situazioni assolutamente strane che non fanno che confondere la vittima.
Conseguenze della violenza psicologica sulla salute
La violenza psicologica produce tutta una serie di conseguenze negative assai rilevanti sulla salute fisica e psicologica della vittima. In genere essa determina l'insorgenza di ansia, depressione, stress e disturbi del sonno.
Un soggetto vittima di violenza sviluppa la depressione in una misura di 5 o 6 volte superiore rispetto a chi non ha un vissuto di violenza. Parimenti più elevata è la possibilità di sviluppare un disturbo post traumatico da stress. Maggiore inoltre la probabilità, per le donne in particolare, di essere colpite da un cancro alla cervice uterina.
Conseguenze penali della violenza psicologica
La violenza psicologica dal punto di vista normativo configura diverse fattispecie di reato, a seconda della condotta tenuta dal soggetto aggressore.
Maltrattamenti in famiglia art. 572 c.p.
Questa norma si occupa nello specifico delle condotte maltrattanti che vengono esercitate all'interno delle mura domestiche e quindi anche nella coppia. La norma punisce le condotte maltrattanti in danno di un soggetto della famiglia o comunque di un convivente. La pena base, da tre a sette anni di reclusione, sale se il reato è commesso in danno di una donna in stato di gravidanza o di un disabile. Se poi la condotta provoca una lesione grave o gravissima la reclusione può arrivare fino a 24 anni.
Lesioni personali art. 582 c.p.
Il reato di lesioni personali punisce chi cagiona a un soggetto una malattia nel corpo o nella mente con la reclusione da sei mesi fino a tre anni. Dalla lettera della norma è evidente la sua applicabilità anche alle "malattie" della mente che possono scaturire dalla violenza psicologica. Le lesioni aggravate sono quelle che producono una malattia per un periodo superiore ai 40 giorni, se provocano l'indebolimento permanente di un senso o se la vittima è una donna in stato di gravidanza.
Le lesioni sono invece gravissime se provocano una malattia insanabile, la perdita di un senso, la perdita dell'uso della parola o di un organo, se pregiudicano per sempre la capacità di procreare, provocano l'aborto o deformano o sfregiano in modo permanente il viso.
Violenza privata art. 610 c.p.
Questo reato si configura quando con violenza o minaccia si costringe qualcun altro a fare, tollerare od omettere qualche cosa. La condotta è punita con la reclusione fino a 4 anni. La norma tutela la libertà morale e quindi psichica dei soggetti contro ogni condotta disturbante o molesta, che vuole impedire od ostacolare la libertà fisica e di movimento. Ad essa si ricorre quando gli atti commessi non sono puniti, nello specifico, da altre norme.
Minaccia art. 612 c.p.
Il reato si configura quando si minaccia ad altri un danno ingiusto. Esso è perseguibile a querela della persona offesa e punito con la multa fino a 1.032 ero, ma se la minaccia è grave e viene fatta in presenza delle aggravanti di cui all'art. 339 la pena è della reclusione fino a un anno.
Stalking art. 612 bis c.p.
È un reato introdotto nel codice penale nel 2009 che punisce chi, con condotte reiterate, minaccia o molesta qualcuno provocando uno stato perdurante di ansia o di paura o che gli fa provare un timore fondato per la propria incolumità (per quella dei suoi prossimi congiunti o per una persona a cui è legata da una relazione affettiva) e che lo costringe a cambiare le proprie abitudini di vita.
La norma punisce in misura maggiore le condotte che riguardano le coppie, ossia quando gli atti persecutori vengono commessi in danno del coniuge o altra persona con cui si ha un vincolo affettivo o quando si utilizzano strumenti informatici. La pena sala anche quando si perseguita una donna in stato di gravidanza o un disabile. A seconda dei casi questo reato è punibile d'ufficio o a querela della persona offesa.
Conseguenze civili della violenza psicologica
La coppia, soprattutto se unita in matrimonio, è tenuta al rispetto di precisi obblighi che nascono con il vincolo matrimoniale. Obblighi che non contemplano solo la fedeltà e la coabitazione, ma anche il supporto morale e materiale il possibile addebito della separazione, l'emissione degli ordini di protezione contro gli abusi familiari contemplato dall'art. 342 c.c., se il fatto non integra un reato più grave e il risarcimento del danno.
Sono diverse ormai le sentenze della Cassazione che riconoscono alle vittime di violenza, abusi psicologici e maltrattamenti il risarcimento del danno a titolo di danni morali e materiali conseguenti alle condotte del soggetto maltrattante. Risarcimento che può essere richiesto costituendosi parte civile nel processo penale intrapreso nei confronti del partner maltrattante e che fa risparmiare tempo rispetto alla separata azione civile di risarcimento.
Tutela che può essere azionata anche da chi non ha i mezzi economici necessari a sostenere i costi per l'assistenza di un avvocato, perché per legge, le vittime dei reati di maltrattamento beneficiano del gratuito patrocinio a carico dello Stato, anche a prescindere dal reddito.
Perde il diritto all'assegno di divorzio chi, durante il matrimonio, sceglie di fare la signora rinunciando alla carriera nonostante il personale domestico che bada a casa e figli
Assegno di divorzio, il fatto
Perde il diritto all'assegno di divorzio chi, durante il matrimonio, sceglie di fare la signora rinunciando alla carriera nonostante la colf che bada a casa e figli. Questo è il principio ispiratore dell'ordinanza n. 18697/2022 della prima sezione civile della Cassazione (in allegato).
Stante la funzione perequativa dell'assegno di divorzio la Suprema corte ha rigettato la domanda di attribuzione dello stesso nel caso in cui, dopo la separazione, pur mantenendo integra la propria capacità lavorativa, il coniuge ha scelto di non mettere a frutto le proprie competenze professionali che l'avevano portata a pubblicare nel 2013 un libro di ricette, a collaborare con gallerie d'arte, quale esperta nel settore, ed a partecipare all'organizzazione di mostre.
Assegno di divorzio, autosufficienza economica
Richiamandosi a quanto affermato dalla corte d'appello, la suprema corte riporta il principio di diritto enunciato dalla sentenza delle sezioni unite 18287 del 2018 in cui si dice che il «riconoscimento dell'assegno di divorzio cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa richiede l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi o comunque dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive (…) e, in particolare, alla luce della valutazione comparativa delle condizioni economiche patrimoniali delle parti, in considerazione del tributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno degli ex coniuge, in relazione alla durata del matrimonio e all'età dell'avente diritto. L'orientamento viene espresso dalla Cassazione nella decisione 11504 del 2017 che, per la prima volta, ha affermato che l'indagine sull'an debeatur dell'assegno divorzile in favore del coniuge richiedente non va ancorata al criterio del tenore di vita goduto in costanza di matrimonio ma quello dell'autosufficienza economica».
Nessun lavoro nonostante la colf badasse ai figli
L'altro motivo fatto ripreso dalla Cassazione, riportato dai giudici territoriali, è il fatto che il matrimonio non aveva avuto una lunga durata e che le cause della sua fine erano attribuibili entrambi gli ex coniugi. Infine secondo quanto accertato nelle fasi precedenti del giudizio, la donna non aveva dato nessun contributo alla formazione del patrimonio comune, avendo scelto di non intraprendere un'attività lavorativa, nonostante avesse sempre potuto contare sull'apporto del personale domestico nella gestione delle figlie e della casa.
Art. 143 Diritti e doveri reciproci dei coniugi.
Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri.
Dal matrimonio deriva l’ obbligo reciproco alla fedeltà, all’ assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’ interesse della famiglia e alla coabitazione.
Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia.
Capo V Dello scioglimento del matrimonio e della separazione dei coniugi.
Art. 149 Scioglimento del matrimonio.
Il matrimonio si scioglie con la morte di uno dei coniugi e negli altri casi previsti dalla legge. Gli effetti civili del matrimonio celebrato con rito religioso, ai sensi dell’articolo 82, o dell’ articolo 83, e regolarmente trascritto, cessano alla morte di uno dei coniugi e negli altri casi previsti dalla legge.
Art. 15 Separazione personale.
E’ ammessa la separazione personale dei coniugi.
La separazione può essere giudiziale o consensuale.
Il diritto di chiedere la separazione giudiziale o l’ omologazione di quella consensuale spetta esclusivamente ai coniugi.
Art. 151 Separazione giudiziale.
La separazione può essere chiesta quando si verificano, anche indipendentemente dalla volontà di uno o di entrambi i coniugi, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio all’ educazione della prole.
Il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio.
Art. 154 Riconciliazione.
La riconciliazione tra i coniugi comporta l’ abbandono della domanda di separazione personale già proposta.
Art. 156 Effetti della separazione sui rapporti patrimoniali tra i coniugi.
Il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall’ altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri.
L’ entità di tale somministrazione è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell’ obbligato.
Resta fermo l’ obbligo di prestare gli alimenti di cui agli articoli 433 e seguenti.
Il giudice che pronunzia la separazione può imporre al coniuge di prestare idonea garanzia reale o personale se esiste il pericolo che egli possa sottrarsi all’adempimento degli obblighi previsti dai precedenti commi e dall’ articolo 155.
La sentenza costituisce titolo per l’ iscrizione dell’ ipoteca giudiziale ai sensi dell’ articolo 2818.
In caso di inadempienza, su richiesta dell’ avente diritto, il giudice può disporre il sequestro di parte dei beni del coniuge obbligato e ordinare ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di danaro all’ obbligato, che una parte di essa venga versata direttamente agli aventi diritto.
Qualora sopravvengano giustificati motivi il giudice, su istanza di parte, può disporre la revoca o la modifica dei provvedimenti di cui ai commi precedenti.
Art.156-bis Cognome della moglie.
Il giudice può vietare alla moglie l’ uso del cognome del marito quando tale uso sia a lui gravemente pregiudizievole, e può parimenti autorizzare la moglie a non usare il cognome stesso, qualora dall’ uso possa derivarle grave pregiudizio.
Art. 157 Cessazione degli effetti della separazione.
I coniugi possono di comune accordo far cessare gli effetti della sentenza di separazione, senza che sia necessario l’intervento del giudice, con una espressa dichiarazione o con un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione.
La separazione può essere pronunziata nuovamente soltanto in relazione a fatti e comportamenti intervenuti dopo la riconciliazione.
Art. 158 Separazione consensuale.
La separazione per il solo consenso dei coniugi non ha effetto senza l’omologazione del giudice.
Quando l’ accordo dei coniugi relativamente all’ affidamento e al mantenimento dei figli è in contrasto con l’ interesse di questi il giudice riconvoca i coniugi indicando ad essi le modificazioni da adottare nell’ interesse dei figli e, in caso di inidonea soluzione, può rifiutare allo stato l’ omologazione.
Il principio affermato dalla Cassazione sulla revoca dell'assegno divorzile al coniuge richiedente può essere applicato anche nella separazione ma la coppia formata con il nuovo compagno deve progettare una nuova famiglia
Assegno di mantenimento e nuova convivenza
La Cassazione con l'ordinanza n. 18862/2022 ribalta decisione della Corte di Appello, che in sede di reclamo ha accolto l'istanza di un marito, che non vuole pagare il mantenimento alla moglie da cui si è separato. Vero che la donna ha un nuovo compagno che le paga viaggi, cene e l'ha aiutata a saldare il perito che ha fatto la stima della casa, questi però sono dati che non provano la volontà della coppia di progettare la formazione di una nuova famiglia insieme.
La vicenda processuale
Pronunciata la separazione il Tribunale pone a carico dell'uomo un assegno mensile di 800 euro per la figlia e 200 euro per la moglie, che però contesta e che il tribunale respinge.
L'uomo agisce quindi in sede di reclamo per la revoca delle disposizioni relative al contributo mensile dovuto a moglie e figlia. Ricorso che questa volta viene accolto con la revoca totale del contributo di 200 euro per la moglie e la riduzione a 400 euro di quanto dovuto mensilmente per la figlia. Revoca disposta in ragione della nuova relazione sentimentale intrapresa con un altro uomo, con il quale ha instaurato una comunione di vita materiale e spirituale, tali da poterli considerare una coppia di fatto anche in assenza di una convivenza continuativa.
Il nuovo compagno della donna si è sobbarcato infatti spese importati, come il costo di 5000 euro per il tecnico incaricato di periziare la casa coniugale ai fini della vendita, quelle per viaggi, gite e cene con la donna, che non avrebbe certo potuto permettersi se fosse stata in difficoltà economiche.
Situazione che ha condotto la Corte a ritenere applicabile anche a questo caso di separazione il principio affermato dalla Cassazione che riguarda però l'assegno divorzile, ossia che l'ex coniuge non ha diritto alla misura se si forma una nuova famiglia di fatto con un'altra persona, senza la necessità di una coabitazione continuativa a tale fine, essendo sufficiente una comunità di affetti e interessi economici.
Non basta un nuovo rapporto serve un progetto di vita comune
La donna non si arrende però alla pronuncia della Corte e ricorre in Cassazione, contestando in particolare, con il quarto motivo che l'orientamento giurisprudenziale applicato dalla Corte di Appello e applicato all'assegno divorzile richiede in realtà, ai fini della revoca, non solo la presenza di un nuovo compagno, ma l'instaurazione con lo stesso di un progetto di vista comune e un rapporto consolidato e protratto, tale da incidere positivamente sulle condizioni economiche della richiedente.
Cene, viaggi e aiuti economici non provano la convivenza di fatto
La Cassazione accoglie sia il secondo motivo con cui è stata contestata la diminuzione dell'importo del mantenimento per la figlia, che il quarto motivo, rigettando gli altri.
In effetti, rilevano gli Ermellini, per la revoca dell'assegno divorzile in favore del coniuge richiedente, la nuova convivenza non esclude automaticamente la misura.
La nuova relazione deve presentare i caratteri della stabilità e della continuatività, anche in assenza di una coabitazione ma anche "l'elaborazione di un diverso progetto di vita, caratterizzato dalla condivisione di nuovi bisogni, interessi, abitudini, attività e relazioni sociali, tali da comportare il superamento del modello familiare cui era improntata la pregressa esperienza coniugale, e con esso del tenore di vita precedentemente goduto."
Solo così si crea la comunione spirituale e materiale di vita che richiede l'assunzione di doveri reciproci di assistenza morale e materiale, che permette identificare il nuovo nucleo come una famiglia di fatto.
Ipotesi che nel caso di specie non è riscontrabile in quanto la donna e il nuovo compagno hanno due distinte residenze. La Corte non ha approfondito inoltre l'effettiva sostanza del rapporto, in merito alla volontà di dare vita a una comunione di vita stabile tale e a nuovo nucleo familiare. La Corte di è limitata a dedurre i dati suddetti solo da viaggi frequenti, cene e dall'aiuto economico dato per il pagamento della perizia, senza preoccuparsi di indagare se tale aiuto fosse da ricondurre alla volontà di mantenere la donna in senso ampio, né di capire quale fosse l'apporto economico della stessa, di tipo personale o economico a fronte di queste erogazioni di denaro.
In recenti ordinanze sopravvive un avventuroso collegamento dell'assegno divorzile con la stabilità delle convivenze e il contributo dei nuovi partner
Assegno divorzile e nuovi legami
Sono frequentissimi, e in numero crescente, gli interventi della Cassazione sulle problematiche connesse con l'assegno divorzile. Mettendo da parte le questioni relative all' an e al quantum, pure oggetto di ampio dibattito, riveste crescente interesse il tema della eventuale perdita del diritto a ricevere l'assegno divorzile, che qui si tenterà di analizzare nel suo sviluppo logico attraverso alcune delle numerose pronunce anche prescindendo, qua e là, dalla successione temporale.
Il tutto nasce dal comma 10 dell'articolo 5 della legge 898/1970, che mette fine a tale diritto con il passaggio a nuove nozze. Di conseguenza, anche se certamente vi concorrono altre motivazioni, in un consistente numero di casi il beneficiario, pur in presenza di un nuovo importante legame affettivo, ha preferito la convivenza a un secondo matrimonio. Qualcosa di analogo era stato osservato per le vedove di guerra, che intendevano evitare la perdita della pensione.
Valenza della coabitazione
D'altra parte, la progressiva assimilazione delle convivenze ai matrimoni, fino alla introduzione del concetto di "famiglia di fatto", pur essendo stata pensata per una maggiore tutela dei soggetti più deboli all'interno delle coppie, ha finito per danneggiare proprio loro nella particolare fattispecie della percezione dell'assegno divorzile, come se si fosse voluto mettere fine alla possibilità di camuffamenti e sotterfugi. Una penalizzazione che è sembrata evitabile facendo a meno di coabitare ufficialmente, ovvero se il nuovo partner mantiene la residenza in altro luogo. A sua volta, tuttavia, la Suprema Corte è intervenuta precisando che per poter definire more uxorio una convivenza la condizione della coabitazione non era né necessaria né sufficiente. Una precisazione assolutamente logica. Difatti, possono aversi coppie anche coniugate che per motivi di impegni di lavoro o di comodità logistiche decidono di avere residenze diverse e di non abitare permanentemente sotto lo stesso tetto. Basti pensare a professioni come quelle che richiedono ad uno dei coniugi una grande mobilità. Allo stesso tempo è comunissima, ad esempio, la coabitazione tra studenti universitari, tra i quali, tuttavia, non esiste alcun impegno di vita.
La coabitazione, pertanto, sopravvive come elemento indiziario, ma cede il ruolo di fattore determinante. Il che, d'altra parte, apre all'organo giudicante il problema dell'ancoraggio ad aspetti affidabili ai fini della classificazione del rapporto. Ambiguità risolta da Cassazione 14151/2022 che sul punto così si esprime: "In materia revoca dell'assegno divorzile disposto per la instaurazione da parte dell'ex coniuge beneficiario di una convivenza more uxorio con un terzo, il giudice deve procedere al relativo accertamento tenendo conto, quale elemento indiziario, dell'eventuale coabitazione di essi, in ogni caso valutando non atomisticamente ma nel loro complesso l'insieme dei fatti secondari noti, acquisiti al giudizio nei modi ammessi dalla legge processuale, nonché gli ulteriori eventuali argomenti di prova, rilevanti per il giudizio inferenziale in ordine alla sussistenza della detta convivenza, intesa quale legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale i conviventi si siano spontaneamente e volontariamente assunti reciproci impegni di assistenza morale e materiale".
Stabilità e famiglia di fatto
Tuttavia, accanto alla problematica della natura del rapporto interno alla coppia va posta quella delle ulteriori condizioni che possono salvare l'assegno divorzile o condurre alla sua caducazione, identificate dalla Suprema Corte nella "stabilità" del rapporto e già affrontata, ad es., da Cassazione 17453/2018: "ai fini della valutazione sulla persistenza delle condizioni per l'attribuzione dell'assegno divorzile deve distinguersi tra semplice rapporto occasionale e famiglia di fatto, sulla base del carattere di stabilità, che conferisce grado di certezza al rapporto di fatto sussistente tra le persone, tale da renderlo rilevante giuridicamente…".
Tuttavia, compiuto questo importante passo avanti sul piano teorico, non sembra che si sia ancora potuti giungere a conclusioni certe e definitive. Resta, infatti, aperto un serio problema, che in qualsiasi momento può essere posto, rappresentato dalla riconoscibilità stessa della "stabilità" dell'unione. In effetti, non sono mancati i riferimenti, per replicare all'obiezione, alla legge 76 del 2013 che nel definire le unioni di fatto invoca tale concetto al comma 36 dell'art.1 : "si intendono per «conviventi di fatto» due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale". Il problema è, purtroppo, che molto realisticamente la medesima legge ai commi 59 e seguenti del medesimo articolo disciplina la conclusione di tale rapporto e del relativo contratto, ammettendo anche il recesso unilaterale. Evidentemente considerandone la precarietà.
Una connotazione che rende del tutto opinabile e inaffidabile l'attribuzione di stabilità a quel rapporto, che è una condizione essenziale per poter affermare che è stata costituita una unione di fatto. Esattamente ciò che vale anche per il soggetto separato e il suo nuovo partner. Sembra dunque di poter concludere che per poter definire un legame successivo al divorzio come unione di fatto è opportuno rinunciare al parametro della stabilità e fare appello ad altre circostanze come l'esistenza di un progetto comune di vita, ad esempio rappresentato dalla presenza di figli. O, quanto meno, ancorare oggettivamente il concetto di stabilità ad una durata minima temporale che venga indicata dalla norma stessa.
La sopravvivenza della componente compensativa
D'altra parte, la Suprema Corte dimostra il suo sostanziale favor per la conservazione dell'assegno enunciando a Sezioni Unite un principio di diritto che distingue tra le componenti dell'assegno e ne salva quella compensativa, sia pure sotto condizione, anche in presenza di famiglie di fatto (sentenza S.U. 32198 del 2021): "Qualora sia giudizialmente accertata l'instaurazione di una stabile convivenza di fatto tra un terzo e l'ex coniuge economicamente più debole questi, se privo anche all'attualità di mezzi adeguati o impossibilitato a procurarseli per motivi oggettivi, ha diritto al riconoscimento di un assegno di divorzio a carico dell'ex coniuge, in funzione esclusivamente compensativa. A tal fine, il richiedente dovrà fornire la prova del contributo offerto alla comunione familiare; della eventuale rinuncia concordata ad occasioni lavorative e di crescita professionale in costanza di matrimonio; dell'apporto alla realizzazione del patrimonio familiare e personale dell'ex coniuge. Tale assegno, anche temporaneo su accordo delle parti, non è ancorato al tenore di vita endomatrimoniale né alla nuova condizione di vita dell'ex coniuge, ma deve essere quantificato alla luce dei principi suesposti, tenuto conto, altresì della durata del matrimonio".
In altre parole, è stata respinta la possibilità di una caducazione automatica e totale del diritto all'assegno di divorzio, affermando che ciò, al di là dell'assenza di una base normativa in tal senso, avrebbe anche tradito lo spirito e la funzione di tale assegno, una volta riconosciutane la valenza plurima, e non solo assistenziale.
Nuovi obblighi e nuove risorse
Questa ulteriore precisazione, tuttavia, non ha ancora potuto mettere la parola fine alla problematica, poiché giustamente si è ritenuto che non si potesse prescindere dalla presenza di nuova prole e dalla consistenza economica dei nuovi partners.
La riflessione si articola necessariamente su due piani: quello del percettore di assegno, il cui nuovo bilancio ricomprende le risorse del convivente, e quello dell'obbligato, che tipicamente deve far fronte a oneri aggiuntivi per la nascita di nuovi figli. Il tutto complicato da altri fattori, come l'attribuzione dell'onere di provare che esiste una convivenza, che questa è stabile e che reca vantaggio al beneficiario; ovvero che, eventualmente, aggiunge passività e costi nel caso in cui si tratti di persona priva di risorse a carico dell'obbligato. A cui si aggiunge la difficoltà di indagare sul patrimonio e sui cespiti di soggetto terzo rispetto alla coppia. Pur rammentando, infatti, che l'art. 337 ter c.c. al comma 6 permette al giudice di estendere il controllo a beni e redditi anche intestati a soggetti diversi dalle parti, l'intrinseca delicatezza di una operazione del genere ha fatto sì che gli esempi siano tutt'altro che frequenti.
Entrando nello specifico, secondo un primo orientamento, da tempo superato, di fronte all'obiezione da parte dell'obbligato di dover sostenere l'onere del mantenimento di nuova prole si affermava che, essendo la procreazione una scelta e non una necessità, nulla doveva essere modificato rispetto agli impegni già presi per effetto del precedente legame (Cass. 15065/2000 e 12212/2001). Una tesi respinta immediatamente dalla dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità, facendo notare che la libertà di formare una nuova famiglia dopo la separazione o il divorzio costituisce l'espressione di un diritto fondamentale sancito dalla Costituzione e dall'ordinamento sovranazionale. Pertanto, si cercò di conciliare le nuove esigenze familiari con le antiche affermando che "allorquando il coniuge divorziato si sia formato una nuova famiglia, nei cui confronti è pur sempre legato da impegni riconosciuti dalla legge, occorre temperare la misura dell'assegno di divorzio a favore dei membri della prima famiglia nei limiti in cui, questo temperamento, non si risolva in una situazione deteriore rispetto a quella goduta dai componenti della seconda famiglia" (Cass. n. 21919/2006).
Un enunciato dove si nota subito come non ci si riferisca solo alla prole, ma si prenda in considerazione il nucleo familiare tutto intero, ovvero anche i nuovi compagni. Coerentemente con quanto ancor più esplicitamente sostenuto in Cass. 1179/2006, questa volta però con esclusivo riferimento al beneficiario: "… in assenza di un nuovo matrimonio, il diritto all'assegno di divorzio, in linea di principio, di per sé permane anche se il richiedente abbia instaurato una convivenza more uxorio con altra persona, salvo che sia data la prova, da parte dell'ex coniuge, che tale convivenza ha determinato un mutamento in melius … delle condizioni economiche dell'avente diritto, … onde la relativa prova non può essere limitata a quella della mera instaurazione e della permanenza di una convivenza siffatta, risultando detta convivenza di per sé neutra ai fini del miglioramento delle condizioni economiche dell'istante e dovendo l'incidenza economica della medesima essere valutata in relazione al complesso delle circostanze che la caratterizzano, laddove una simile dimostrazione del mutamento in melius … può essere data con ogni mezzo di prova, anche presuntiva, soprattutto attraverso il riferimento ai redditi ed al tenore di vita della persona con la quale il richiedente l'assegno convive ".
Una sottolineatura ragionevole, quella del non automatismo del vantaggio economico e della necessità di considerare le risorse del nuovo partner, correttamente evidenziata da Cass. 14921/2007, secondo la quale "La convivenza more uxorio, pur ove acquisti carattere di stabilità, non dà luogo ad un obbligo di mantenimento reciproco fra i conviventi e può anche essere instaurata con persona priva di redditi e patrimonio, cosicché l'incidenza economica di detta convivenza deve essere valutata in relazione al complesso delle circostanze che la caratterizzano."
Una enunciazione, tuttavia, che in seguito è stata smentita più volte, sia sul piano dell'onere della prova che su quello della presunzione di vantaggiosità. Fino, ad es. a Cass. 15241/2022, (che rimanda alla S.U. 321198/2021), secondo la quale "il coniuge obbligato a corrispondere l'assegno può limitarsi a provare l'altrui costituzione di una nuova formazione sociale familiare stabile, non essendo onerato del fornire anche la prova (assai complessa da reperire, per chi è estraneo alla nuova formazione familiare) di una effettiva contribuzione, di ciascuno dei conviventi, al ménage familiare, perché la stessa può presumersi, dovendo ricondursi e fondarsi sull'esistenza di obblighi di assistenza reciproci".
Resta il fatto che la logica osservazione di Cass. 14921/2007 sembra adattarsi in pratica molto meglio alle situazioni in cui viene a trovarsi l'obbligato, piuttosto che il beneficiario. Considerazione che trascina l'interprete verso valutazioni socio-politiche, essendo tipicamente la donna il coniuge debole, che nel nuovo rapporto si lega a chi sta meglio di lei, mentre per la ragione inversa l'ex marito non di rado, instaurando una nuova relazione, si carica di ulteriori pesi economici.
Conclusioni
Questi ultimi aspetti rimarcano la non trascurabile parte di percorso che resta da compiere per illuminare un quadro assai complesso. Manca ancora, in effetti, un approfondimento su ciò che rappresenta la presenza del nuovo partner con le sue peculiarità nel produrre reddito o viceversa nel necessitare di sostegno e pertanto di rappresentare una non indifferente passività. Mentre si riscontrano con sufficiente ampiezza pronunce che tengono conto degli obblighi dei doveri economici dell'obbligato nei confronti della nuova discendenza, non è stata fatta ancora chiarezza, mediante l'enunciazione di principi di diritto, sulla valenza da attribuire nell' an e nel quantum alla presenza nel gruppo familiare di nuova costituzione di un soggetto adulto che rappresenti una fonte di contributi o di bisogni. La casistica si presenta tutt'altro che semplice. Si pensi, ad esempio che l'obbligato potrebbe essersi accompagnato ad altra persona in una varietà di situazioni, sia sotto il profilo del legame che sotto quello delle risorse, in assenza come in presenza di nuova prole, al mantenimento della quale è chiamato anche l'altro genitore. Una varietà di situazioni che non sempre sarà facile disciplinare nel momento in cui non si intende accettare l'idea che il divorzio sia tombale rispetto al matrimonio, rinunciando a proiettare illimitatamente il principio di solidarietà, certamente validissimo di per sé, ma forse non pensato per chi ha scelto la propria indipendenza recidendo i precedenti i legami.
In definitiva, si può concludere che, dal momento in cui la Suprema Corte nell'applicazione dell'assegno divorzile previsto dalla legge 898/1970 si è dovuta addentrare in una moltitudine di sottocasi, sempre più sono apparse le difficoltà legate alla scelta di rendere economicamente indissolubili i legami di coppia.
Una tantum dopo la separazione: come funziona e che valore ha.
Nel momento in cui una coppia divorzia, si può pagare l’assegno di mantenimento in un’unica soluzione. Tale previsione, che può essere disposta solo se c’è l’accordo di entrambi i coniugi, viene detta una tantum. In questo modo, il coniuge obbligato si libera dall’obbligo di versare mensilmente gli alimenti.
Non è una sorta di “risarcimento”, come qualcuno lo vorrebbe vedere, né di buonuscita come ironicamente si dice: è solo il modo per tacitare ogni pretesa economica dell’ex attraverso la corresponsione di un’unica (e più elevata) somma, determinata à forfait e in anticipo o, eventualmente, tramite beni mobili o immobili (ad esempio, l’intestazione di una casa).
A quanto ammonta l’assegno una tantum? È conveniente un accordo di questo tipo? Se si concorda di pagare l’assegno di mantenimento in un’unica soluzione sarebbe poi possibile una successiva richiesta di integrazione o modifica degli accordi di divorzio presentata dall’ex? Sul punto, sarà bene fare alcune precisazioni.
Differenza tra mantenimento, assegno divorzile ed alimenti
Anche se, nella terminologia comune, si parla spesso di «alimenti» o di «mantenimento» indistintamente, se si vuole utilizzare una terminologia più corretta è bene conoscere la distinzione tra tali concetti. Lo faremo qui di seguito.
Le somme che il coniuge deve versare all’ex all’indomani della separazione vanno sotto il nome di assegno di mantenimento. Il mantenimento permane fino al divorzio.
Quando poi la coppia divorzia, l’assegno di mantenimento viene sostituito dal cosiddetto assegno di divorzio (o «assegno divorzile»). Tuttavia, i criteri di riconoscimento e calcolo di quest’ultimo sono pressoché gli stessi dell’assegno di mantenimento, così come identico è il funzionamento. Si tratta quindi, più che altro, di una differenza terminologica.
Gli alimenti sono cosa completamente differente. Si parla di «alimenti» con riferimento alle somme che i familiari più stretti devono versare a chi si trova in condizioni economiche talmente disagiate da mettere a repentaglio la sua stessa integrità fisica. L’ipotesi tipica è quella del disabile che non riesca a lavorare. Obbligati a versare gli alimenti sono innanzitutto il coniuge e i figli del bisognoso. Poi, via via, vengono individuati i parenti di grado più lontano (nipoti, genitori, generi e nuore, suocero e suocera, fratelli e sorelle).
Gli alimenti poi si differenziano dal mantenimento per l’ammontare: essi infatti sono rivolti a garantire solo la sopravvivenza e quindi rappresentano una somma minima.
Come funziona l’assegno di mantenimento?
Nel momento in cui una coppia si separa o divorzia, il coniuge più benestante deve provvedere al mantenimento dell’ex nei limiti delle proprie capacità economiche e comunque entro il limite massimo necessario a garantire a quest’ultimo la sola autosufficienza economica, indipendentemente dal tenore di vita che questi era solito godere durante il matrimonio.
Quindi, a prescindere dal reddito di cui è titolare il coniuge obbligato a versare l’assegno, l’ammontare dello stesso deve essere rivolto soltanto a consentire l’indipendenza sul piano economico, ossia un tenore di vita dignitoso, non necessariamente agiato.
Chi chiede l’assegno di mantenimento o l’assegno di divorzio deve dimostrare di trovarsi in condizioni di difficoltà economica non per propria colpa. Il che è incompatibile con la condizione di una persona giovane, ancora capace di lavorare, soprattutto se con un titolo professionale o comunque una formazione e specializzazione che gli consentono di immettersi nel mercato del lavoro.
Di solito, l’assegno di mantenimento viene riconosciuto a chi non può più lavorare per sopraggiunti limiti di età (ad esempio, 45-50 anni), perché disabile, perché privo di istruzione e sempre che dia prova di aver fatto di tutto per cercare un’occupazione. E, non in ultimo, l’assegno spetta alla donna che ha rinunciato alla carriera pur di badare alla casa e alla famiglia, consentendo così al marito di concentrarsi sul proprio lavoro incrementando la propria ricchezza.
Chi decide l’assegno di mantenimento?
A decidere l’ammontare dell’assegno di mantenimento o di divorzio è l’accordo tra i coniugi o, in mancanza, il giudice su ricorso del richiedente. Nel primo caso, si procede a una separazione o divorzio consensuale; nel secondo, invece, si dà luogo a una procedura di tipo “giudiziale”, in una normale causa nel corso della quale ciascuna delle parti dovrà dimostrare le proprie condizioni economiche e necessità, i costi che deve sostenere, l’indisponibilità di altri redditi, ecc.
Come funziona il mantenimento in un’unica soluzione
Tanto l’assegno di mantenimento quanto quello divorzile possono essere versati, su accordo di entrambe le parti, in un’unica soluzione, ossia tramite il cosiddetto assegno una tantum. Questo però si atteggia in modo diverso a seconda che venga privato all’atto della separazione o del divorzio. Distinguiamo le due ipotesi.
Cos’è il mantenimento in un’unica soluzione?
I diritti del coniuge più debole economicamente possono essere liquidati, per espressa previsione di legge, non solo attraverso il pagamento di un assegno periodico, ma anche attraverso la corresponsione di una somma in un’unica soluzione o, eventualmente, tramite la cessione di cespiti mobiliari o immobiliari (ad esempio, l’intestazione di una casa). È ciò che si chiama una tantum.
In buona sostanza, se c’è l’accordo tra le parti, il coniuge beneficiario del mantenimento può accontentarsi di un unico versamento: immediato o dilazionato in due o più tranche. Tale pagamento non consentirà di chiedere poi il mantenimento mensile, salvo quanto diremo a breve.
È chiaro quindi che la corresponsione dell’assegno una tantum presuppone una procedura di tipo consensuale, non potendo mai intervenire in una separazione o divorzio giudiziale, neanche su richiesta della parte al giudice. Il giudice infatti, in presenza di una causa, può solo fissare l’assegno mensile.
A quanto ammonta l’assegno una tantum?
La legge non dice a quanto debba ammontare l’assegno una tantum: tutto è rimesso alla libera trattativa tra le parti. Ciò non toglie che il giudice, chiamato ad omologare l’accordo di separazione o divorzio, possa valutare la congruità della somma ed eventualmente (anche se poco probabile) modificarla.
Assegno una tantum con la separazione
A differenza di quanto accade per l’assegno divorzile, nella separazione dei coniugi non è prevista la corresponsione dell’assegno di mantenimento in un’unica soluzione.
Tuttavia, la giurisprudenza ritiene ammissibile l’assegno di mantenimento una tantum in base ad un accordo fra le parti.
È bene però sapere che gli accordi presi in sede di separazione consensuale non sono vincolanti al momento del successivo divorzio e quindi possono essere oggetto di ripensamento. Pertanto, il coniuge debole, al quale è stata corrisposta una forma di mantenimento in un’unica soluzione, ha la possibilità di richiedere successivamente, con il divorzio, la corresponsione di un assegno periodico.
Dunque, non può escludersi che il coniuge debole formuli in sede di divorzio una domanda finalizzata al riconoscimento di un assegno a suo favore, malgrado i coniugi in sede di separazione abbiano pattuito la corresponsione di una somma una tantum per la definizione dell’obbligo di mantenimento.
Questo significa che non è affatto conveniente stabilire l’assegno una tantum in sede di separazione.
Assegno una tantum con il divorzio
L’articolo 5 della legge sul divorzio prevede che «Su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in unica soluzione ove questa sia ritenuta equa dal tribunale. In tal caso non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico».
L’una tantum non deve essere costituita necessariamente da una somma di denaro, ma può riguardare anche il trasferimento della proprietà di immobili e persino l’obbligo, che il coniuge forte si accolla, di versare ad una banca le rate del mutuo garantito da ipoteca su immobili di proprietà dell’altro.
La corresponsione dell’una tantum è destinata ad avere effetti per tutto il corso della vita del coniuge debole. Come già detto, la corresponsione in unica soluzione impedisce al coniuge debole di chiedere una successiva modifica delle condizioni di divorzio e persino di chiedere gli alimenti in presenza di una grave situazione di disagio economico.
La norma, tuttavia, consente il pagamento in un’unica soluzione esclusivamente in presenza di due condizioni:
- l’accordo fra le parti;
- il successivo controllo di equità da parte del tribunale (anche se, come anticipato, si tratta di un controllo formale che quasi mai dà origine a una modifica dell’importo concordato tra i coniugi).
Non è possibile, di conseguenza, che un procedimento contenzioso di divorzio venga definito, per iniziativa del tribunale, attraverso il riconoscimento di una prestazione una tantum a favore del coniuge più debole in luogo dell’assegno periodico.
La giurisprudenza più recente ritiene che anche l’intestazione di un immobile come accordo di divorzio non precluda al coniuge beneficiario, qualora si modifichino le sue condizioni economiche sostanzialmente, di chiedere una successiva integrazione.
Secondo la giurisprudenza, anche quando non c’è convivenza conta la stabilità del rapporto col nuovo partner e il progetto di vita intrapreso insieme. Il rifiuto a letto giustifica il tradimento?
Quando una coppia di coniugi si separa e divorzia, non c’è niente di male che gli ormai ex marito e moglie prendano ciascuno la propria strada e, se vogliono, intraprendano nuovi legami sentimentali, affettivi e sessuali, più o meno occasionali, con altri partner. Questo è legittimo, perché i vincoli matrimoniali sono ormai cessati, compresi i doveri di coabitazione e di fedeltà. Ma è piuttosto antipatico, per chi è obbligato a versare l’assegno, venire a sapere che l’altro ha un nuovo compagno, un “affetto stabile” con il quale ha instaurato un rapporto profondo e magari anche una convivenza di fatto.
Questa constatazione va fatta anche se formalmente i due componenti della nuova coppia non convivono insieme, ma forse se la spassano anche grazie a quel contributo economico che arriva con cadenza mensile. E allora ci si pone la domanda: se l’ex coniuge ha una nuova relazione perde il mantenimento? Vediamo.
Assegno di mantenimento e assegno divorzile: differenze
Va premesso che i presupposti per il riconoscimento del mantenimento sono diversi in caso di assegno stabilito a seguito della separazione coniugale o in caso di intervenuto divorzio.
L’assegno divorzile si fonda sull’inadeguatezza dei mezzi economici a disposizione dell’ex coniuge e sulla sua impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive (come nel caso di malattia o età avanzata che preclude la possibilità di trovare un lavoro): per questo gli deve essere riconosciuto un contributo che – spiega la Cassazione – ha natura «assistenziale, compensativa e perequativa».
L’assegno di mantenimento, invece, è basato sulla sproporzione tra le condizioni economiche dei due coniugi e sul criterio della conservazione del tenore di vita goduto durante la convivenza matrimoniale.
Nuova convivenza: quando spetta ancora l’assegno divorzile?
Questa differenza tra assegno di mantenimento e assegno di divorzio si ripercuote sulla nuova convivenza intrapresa dall’ex coniuge beneficiario del mantenimento: secondo la giurisprudenza prevalente e più recente, con la separazione non si perde ancora l’assegno, nonostante vi sia un nuovo compagno o compagna di vita, mentre con il divorzio il diritto a percepire l’assegno divorzile resta «definitivamente escluso».
Tuttavia, una recente sentenza resa dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha lasciato uno spiraglio per la percezione dell’assegno divorzile anche nei casi di nuova convivenza dell’ex coniuge beneficiario con un nuovo compagno. Questo avviene quando rimane necessario tener conto del contributo fornito dall’avente diritto all’assegno alla conduzione della vita familiare – e dunque all’accrescimento del patrimonio comune – durante gli anni di matrimonio. In tali casi, nonostante la nuova convivenza e la creazione di una diversa coppia di fatto, l’assegno divorzile spetta ancora; potrà essere ridotto, in considerazione dell’eventuale apporto patrimoniale fornito dall’attuale compagno dell’ex coniuge, ma non completamente eliminato.
Quando la nuova relazione fa perdere il mantenimento?
Dopo aver chiarito che non sempre la nuova convivenza fa perdere il mantenimento, rimane da vedere cosa succede in caso di nuova relazione intrapresa dall’ex coniuge che, però, non si è tradotta in una convivenza stabile: come accade nel caso in cui i due nuovi partner non coabitano sotto lo stesso tetto e vivono in residenze separate, ma hanno comunque un legame intenso e una frequentazione reciproca costante. Se l’ex coniuge obbligato al versamento dell’assegno periodico scopre queste circostanze, può chiedere al giudice di revocare il mantenimento?
La risposta a tale impegnativa domanda è arrivata con una nuova ordinanza della Cassazione [5], che ha deciso il caso di due ex coniugi in cui la beneficiaria dell’assegno aveva instaurato una relazione sentimentale con un nuovo compagno ma senza coabitazione. Secondo la Suprema Corte, per togliere il mantenimento non è sufficiente la nuova relazione, ma occorre verificare se essa si è tradotta o meno in un «progetto di vita in comune» tra la percettrice dell’assegno e l’attuale partner.
Come si stabilisce se con la nuova relazione si ha ancora diritto al mantenimento
Il Collegio rileva che è necessario compiere, innanzitutto, «un accertamento sulla stabilità della nuova relazione» intrapresa (quelle occasionali e temporanee, ovviamente, non rilevano ai fini dell’esclusione del mantenimento), ed anche «sulla consistenza e continuità dell’apporto economico fornito dal convivente al coniuge avente diritto all’assegno»: così, ad esempio, se l’ex moglie si è legata ad un uomo benestante, non dovrà essere più l’ex marito a mantenerla.
Se la coppia di coniugi è soltanto separata, ma non ancora divorziata, per valutare la nuova relazione bisogna, poi, tenere conto della «fase delicata e temporanea della vita che potrebbe ancora sfociare nella riconciliazione dei coniugi» (infatti la separazione coniugale è una fase provvisoria e reversibile). Ecco perché, nel caso di assegno di mantenimento riconosciuto all’ex coniuge a seguito della separazione, la nuova relazione non è dirimente: i giudici di piazza Cavour segnalano che «la decisione di instaurare un nuovo rapporto non può considerarsi sempre espressione di una compiuta scelta esistenziale implicante una reale progettualità di vita, quale è quella propria della convivenza con un’altra persona, che fa sorgere reciproci obblighi di assistenza morale e materiale».
Pertanto – spiegano gli Ermellini – il mantenimento cessa «solo ove si dimostri che il coniuge richiedente abbia instaurato una convivenza more uxorio con altra persona avente carattere di stabilità, continuità ed effettiva progettualità di vita, potendosi in tal caso presumere che le disponibilità economiche di ciascun convivente siano messe in comune». Nel caso esaminato, ciò non era avvenuto, o comunque non era stato riscontrato, tant’è che la Suprema Corte ha rinviato la vicenda ai giudici di merito per un nuovo esame di tale profilo. Intanto, in definitiva, la Corte di Cassazione ha escluso «ogni automatismo tra l’instaurazione di una nuova relazione sentimentale e la perdita del diritto all’assegno».
Si può ottenere un risarcimento danni in caso di infedeltà coniugale?
Una sentenza della Corte di Cassazione stabilisce che il coniuge tradito pubblicamente dal proprio partner (moglie o marito), può richiedere il risarcimento del danno subito nel caso in cui nella causa di separazione non sia stato pronunciato l’addebito della separazione.
La sentenza n. 18853 del 15 settembre 2011 emessa dalla Suprema Corte di Cassazione Sezione I Civile ha sancito il principio di risarcibilità dei danni che derivano dall’infedeltà coniugale.
L’infedeltà coniugale o tradimento del coniuge rappresenta in Italia una delle cause più frequenti di crisi coniugali e di richiesta di separazione. La sentenza ha confermato un orientamento giurisprudenziale che era già osservato negli ultimi anni, affermando che il coniuge tradito ha diritto al risarcimento dei danni derivanti dall’infedeltà coniugale anche nel caso in cui all’altro coniuge non sia stata addebitata la separazione.
Nelle cause di separazione coniugale, infatti, il Giudice è tenuto a verificare, caso per caso se il tradimento o infedeltà coniugale sia la causa che ha originato la crisi coniugale o se invece non sia solo la conseguenza di una crisi matrimoniale già in atto.
Con la sentenza n. 18853 del 15/09/2011 la Suprema Corte afferma che i doveri coniugali derivanti dal matrimonio non sono solo morali, ma hanno natura giuridica e che la loro violazione quando è palese può dar luogo ad un illecito civile e comportare quindi anche il risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 2059 del Codice Civile.
La sentenza in esame non ha solo sancito quanto precedentemente affermato anche con la sentenza del 10 Maggio 2005 n.9801, ma vi ha aggiunto un quid novi, un qualcosa di nuovo:
- La violazione dei doveri coniugali può determinare una sanzione a natura risarcitoria indipendentemente dall’eventuale richiesta di addebito in sede di separazione dei coniugi.
- La mancanza di addebito, anche nel caso di separazione consensuale, non è preclusiva di separata azione civile per il risarcimento dei danni prodotti dalla violazione dei doveri discendenti dall’art. 143 del Codice Civile (“Infedeltà coniugale”) e riguardanti diritti costituzionalmente garantiti.
- Qualora ne sussistano i presupposti, l’azione per far valere l’illecito civile deve ritenersi del tutto autonoma rispetto agli strumenti previsti dal diritto di famiglia.
Riconciliazione: è necessario ricostruire il consorzio famigliare
Ai fini della riconciliazione dei coniugi non è sufficiente un mero ripristino della situazione antecedente alla separazione, ma è necessario ricostituire il consorzio familiare attraverso la ricomposizione della comunione coniugale di vita, vale a dire la ripresa di relazioni reciproche, tali da comportare il superamento di quelle condizioni che avevano reso intollerabile la prosecuzione della convivenza e che si concretizzano in un comportamento non equivoco incompatibile con lo stato di separazione.
Tribunale Vicenza sez. II, 14/07/2021, n.1476
Coabitazione: è sufficiente a provare la riconciliazione dei coniugi separati?
La sola coabitazione non è sufficiente a provare la riconciliazione tra i coniugi separati, occorrendo che risulti il ripristino della comunione di vita e di intenti che costituisce il fondamento del vincolo coniugale.
Tribunale Venezia sez. II, 23/06/2021, n.1298
Ripristino della convivenza a scopo sperimentale e provvisorio
In tema di riconciliazione tra coniugi separati, alla luce degli effetti da essa derivanti, non è sufficiente che i medesimi abbiano ripristinato la convivenza a scopo sperimentale e provvisorio, essendo invece necessaria la ripresa dei rapporti materiali e spirituali, che costituiscono il nucleo del vincolo coniugale.
Conseguentemente, l’accertamento di elementi che depongano in senso contrario alla ricostituzione dell’affectio familiare (a titolo esemplificativo: marito che dorme sul divano; assenza di rapporti fisici; relazione extraconiugale intrattenuta dall’ex marito durante la ripresa della convivenza) impedisce la produzione degli effetti che la legge riconnette alla riconciliazione.
Cassazione civile sez. I, 21/05/2021, n.14037
Ripresa dei rapporti materiali e spirituali
Non è sufficiente, per provare la riconciliazione tra coniugi separati, considerati gli effetti da essa derivanti, che i medesimi abbiano ripristinato la convivenza a scopo sperimentale e provvisorio, essendo invece necessaria la ripresa dei rapporti materiali e spirituali, caratteristici della vita coniugale (confermata la decisione di merito secondo cui le circostanze accertate – pagamento dell’assegno, marito che dorme sul divano, assenza di rapporti fisici, relazione extraconiugale intrattenuta dall’ex marito durante la ripresa della convivenza – deponessero per la mancata ricostruzione della comunione spirituale e materiale).
Cassazione civile sez. I, 21/05/2021, n.14037
Riconciliazione coniugi: in cosa consiste?
La riconciliazione non consiste nel mero ripristino della situazione quo ante, ma nella ricostituzione del consorzio familiare attraverso la ricomposizione della comunione coniugale di vita, vale a dire la ripresa di relazioni reciproche, oggettivamente rilevanti, tali da comportare il superamento di quelle condizioni che avevano reso intollerabile la prosecuzione della convivenza.
Tribunale Vicenza sez. II, 01/10/2020, n.1598
Rapporti caratteristici della vita coniugale
In tema di separazione dei coniugi, non è sufficiente, per provare la riconciliazione tra coniugi separati, per gli effetti che ne derivano, che i medesimi abbiano ripristinato la convivenza a scopo sperimentale, essendo invece necessaria la ripresa dei rapporti materiali e spirituali, caratteristici della vita coniugale.
Tribunale Imperia sez. I, 17/07/2020, n.369
La riconciliazione dei coniugi
È improcedibile la domanda di scioglimento del matrimonio se i coniugi dopo la separazione sono tornati a vivere insieme per anni, pur avendo altre soluzioni abitative. L’eccezione di sopravvenuta riconciliazione non può essere rilevata d’ufficio, non investendo profili di ordine pubblico, ma aspetti strettamente attinenti al rapporto tra coniugi, in ordine ai quali è onere della parte convenuta eccepire e provare tempestivamente l’avvenuta riconciliazione.
Deve inoltre escludersi che il procedimento di modifica delle condizioni di separazione dei coniugi, il cui thema decidendum è rappresentato dall’esistenza di rilevanti mutamenti di fatto delle condizioni poste a base della decisione, comporti anche un accertamento con efficacia di giudicato sull’assenza dell’avvenuta riconciliazione dei coniugi, ove la questione non sia stata posta da alcuna delle parti processuali.
Cassazione civile sez. I, 16/06/2020, n.11636
Modifica delle condizioni di separazione dei coniugi
Deve escludersi che il procedimento di modifica delle condizioni di separazione dei coniugi, il cui “thema decidendum” è rappresentato dall’esistenza di rilevanti mutamenti di fatto delle condizioni poste a base della decisione, comporti anche un accertamento con efficacia di giudicato sull’assenza dell’avvenuta riconciliazione dei coniugi, ove la questione non sia stata posta da alcuna delle parti processuali.
Cassazione civile sez. I, 16/06/2020, n.11636
Riconciliazione dei coniugi dopo la separazione: l’onere della prova
La parte che ha interesse a far accertare l’avvenuta riconciliazione dei coniugi, dopo la separazione, ha l’onere di fornire una prova piena e incontrovertibile, che il giudice di merito è chiamato a verificare, tenendo presente che, in mancanza di una dichiarazione espressa di riconciliazione, gli effetti della separazione cessano soltanto col fatto della coabitazione, la quale non può ritenersi ripristinata per la sola sussistenza di ripetute occasioni di incontro e di frequentazione, ove le stesse non depongano per una reale e concreta ripresa delle relazioni materiali e spirituali.
Il relativo apprezzamento, effettuato seguendo i criteri appena riportati, non può essere oggetto di sindacato di legittimità, in presenza di una motivazione adeguata ed esaustiva.
Cassazione civile sez. VI, 26/07/2019, n.20323
Incontri occasionali: non è configurabile la riconciliazione
In forza dell’art. 157 c.c., gli effetti della separazione personale, in mancanza di una dichiarazione espressa di riconciliazione, cessano soltanto col fatto della coabitazione, la quale non può, quindi, ritenersi ripristinata per la sola sussistenza di ripetute occasioni di incontri e di frequentazioni tra i coniugi, ove le stesse non depongano per una reale e concreta ripresa delle relazioni materiali e spirituali costituenti manifestazione ed effetto della rinnovata società coniugale.
Cassazione civile sez. VI, 26/07/2019, n.20323
Coabitazione: prova la riconciliazione dei coniugi?
La mera coabitazione non è sufficiente a provare la riconciliazione tra i coniugi separati, essendo necessario il ripristino della comunione di vita e d’intenti che costituisce il fondamento del vincolo coniugale.
Cassazione civile sez. VI, 05/02/2016, n.2360
Riconciliazione dei coniugi: presupposti, requisiti, effetti
Ritenuta l’essenziale rilevanza, fattuale ed effettuale, sul piano personale e patrimoniale, nei rapporti “inter partes” e nei confronti dei terzi, della cd. riconciliazione fra coniugi in crisi, in rotta o già in conflitto giudiziario vero e proprio; ma ritenuto, altresì, che il giudice, prescindendo da irrilevanti riserve mentali, non può accedere alla sfera intima ed insondabile dei sentimenti, dovendo egli affidarsi, pertanto, alla condotta dei coniugi, l’elemento oggettivo del ripristino della loro coabitazione è potenzialmente a fondare il suo positivo convincimento in ordine all’asserita, avvenuta riconciliazione, spettando al coniuge interessato a negare che conciliazione vi sia stata, dimostrare che il nuovo assetto di vita comune non sia stato tale da integrare una ripresa della convivenza basata sull'”honor matrimonii” e sulla “familiaris consortio”, convivenza configurabile, quindi, come evento-prova conciliativo: il coniuge affermante la riconciliazione dovrebbe provare la piena ripresa di una convivenza veramente coniugale nella casa familiare od altrove, ferma restando la legittimazione del coniuge negante la riconciliazione a dimostrare che tale ripresa era stata motivata da ragioni diverse, insuscettibili di esprimere e provare volontà e valenza realmente conciliativa.
Il dovere di mantenimento da parte dei genitori cessa se il giovane adulto e munito di un valido titolo di studio non si impegna attivamente per cercare lavoro.
I genitori fanno grossi sforzi per sostenere la crescita dei loro figli, dall’infanzia all’adolescenza e spesso anche oltre. Quando i ragazzi sono già maggiorenni e intendono proseguire gli studi, oppure non trovano un lavoro (e talvolta non si danno neanche da fare per cercarlo), mamma e papà, di solito, continuano a sacrificarsi per mantenerli. Intanto però le spese aumentano, perché le esigenze di un giovane adulto sono maggiori di quelle di un bambino. E i costi sono notevoli, soprattutto quando si tratta di studenti universitari fuori sede. Ma quando l’obiettivo è raggiunto, e il neo-dottore ha finalmente conquistato il “pezzo di carta” che dovrebbe dargli un proficuo accesso al mondo del lavoro, bisogna mantenere un figlio laureato?
Obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni
L’obbligo di mantenimento dei figli da parte dei genitori è imposto dall’art. 30 della Costituzione, che sancisce: «È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli anche se nati fuori dal matrimonio». Il Codice civile specifica che: «Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni». Il contributo economico da fornire ai figli compete ad entrambi in genitori, «in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo».
Questo obbligo di mantenimento dei figli vale, senza eccezioni, dalla nascita fino al raggiungimento della maggiore età. Per i figli divenuti maggiorenni, una norma dettata in tema di separazioni dei coniugi dispone che: «Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico» (che dovrà essere versato direttamente a loro, anziché all’ex coniuge, come avviene nel caso dei figli ancora minorenni).
La contribuzione dei genitori, quindi, diventa eventuale e dipende dal raggiungimento o meno dell’indipendenza economica dei giovani: solo ai figli maggiorenni portatori di handicap grave il mantenimento spetta sempre, come ai minorenni. Tutto ciò significa che l’obbligo dei genitori di mantenere i figli maggiorenni non è automatico, ma deve essere stabilito di volta in volta in base alle situazioni concrete, tranne che nel caso dei disabili.
Mantenimento figli maggiorenni: fino a quando?
Su queste colonne ci siamo già occupati del caso del mantenimento del figlio che non lavora e non studia, e a tal proposito ha fatto scalpore una recente sentenza della Cassazione che ha eliminato l’assegno di mantenimento mensile versato ad una ragazza, ormai trentenne, che aveva interrotto gli studi ed aveva rifiutato numerose offerte di lavoro (che, oltretutto, le aveva procurato il padre).
Ma stavolta le cose sono diverse: qui abbiamo la situazione di un figlio ormai già diventato adulto, che ha completato i propri studi universitari, magari da tempo, e nonostante ciò chiede di essere ancora mantenuto dai genitori. È un “bamboccione”, oppure non è colpa sua se non ha ancora trovato un lavoro stabile, e dunque ha ancora diritto ad essere sostenuto economicamente? Ebbene, non esiste un’età predeterminata oltre la quale l’obbligo di mantenimento dei figli da parte dei genitori cessa. Solo per i figli affetti da handicap grave e riconosciuto nelle forme di legge il mantenimento da parte dei genitori perdura quando la menomazione di cui sono portatori ha ridotto la loro autonomia personale e rende necessario «un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale».
Mantenimento figli adulti: può essere revocato?
La prosecuzione del mantenimento di un figlio che ha raggiunto la maggiore età non è per sempre. Il mantenimento dei figli adulti viene meno non solo quando essi hanno raggiunto l’autosufficienza economica, ma anche quando non l’hanno conseguita per cattiva volontà e scarso impegno nella ricerca di un’occupazione lavorativa adeguata e stabile. È un’applicazione del principio che la giurisprudenza definisce «autoresponsabilità»: questo criterio – come afferma la Corte di Cassazione – «impone al figlio di non abusare del diritto ad essere mantenuto dal genitore oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura».
Tenuto conto delle attuali difficoltà occupazionali e di inserimento dei giovani nel mondo del lavoro, la giurisprudenza più recente colloca tra i 30 ed i 35 anni l’età massima oltre la quale un figlio non deve più essere mantenuto e perciò l’assegno che gli veniva precedentemente riconosciuto può essere revocato. D’altronde è proprio questa l’età necessaria per il completamento di cicli di studi anche post-universitari complessi, come le specializzazioni in medicina o nelle professioni legali.
Mantenimento di un figlio laureato: quando cessa?
In applicazione dei criteri che abbiamo esposto, una nuova ordinanza della Corte di Cassazione ha revocato l’assegno di mantenimento di un figlio laureato che non aveva dimostrato «di essersi adoperato effettivamente per rendersi autonomo economicamente, impegnandosi attivamente per trovare un’occupazione in base alle opportunità reali offerte dal mercato del lavoro, se del caso ridimensionando le proprie aspirazioni, senza indugiare nell’attesa di una opportunità lavorativa consona alle proprie ambizioni».
Nel caso deciso dai giudici di piazza Cavour, era emerso che il giovane laureato non si era preoccupato di inviare il suo curriculum alle aziende e non aveva partecipato a concorsi, selezioni o colloqui utili per cercare lavoro: insomma, non aveva fatto nulla per rendersi economicamente indipendente e pertanto aveva violato il principio di autoresponsabilità. Questa decisione della Suprema Corte non è isolata: puoi leggere altre pronunce simili nella rassegna “Mantenimento figli maggiorenni: ultime sentenze“.
Accise sui carburanti, tassa di soggiorno, canone tv. Ma anche Iva, bollo auto e Irpef. Le imposte più odiate dai contribuenti. E perché sono così antipatiche.
Inutile negarlo: uno degli esercizi più difficili da fare per qualsiasi cittadino è quello che consiste nel pagare le tasse. Si ha l’idea che lo Stato prenda una parte dei nostri soldi con qualsiasi scusa, e forse è così. Si versano tasse e imposte per lavorare, per avere una casa o un’auto (il carburante è una delle miniere d’oro per lo Stato), per comprare qualsiasi cosa (attraverso l’Iva), per guardare la televisione o per non guardarla, dato che il canone Rai si paga per il solo fatto di avere un apparecchio in casa. Perfino quando si ha un colpo di fortuna e si vince una lotteria il Fisco stappa la bottiglia insieme a chi ha fatto centro. «A tutto c’è un limite», pensa inutilmente il contribuente, visto che non spetta a lui porre alcuna soglia. Nel suo mondo perfetto, però, il cittadino sogna di togliere dall’elenco alcune voci particolarmente antipatiche. E da un recente sondaggio, vengono fuori le tre tasse che gli italiani non vogliono pagare. Non che le altre le versino volentieri, intendiamoci.
A ben guardare il risultato di uno studio fatto da Krls Network of Business Ethics per Contribuenti.it Associazione Contribuenti Italiani-Aps, condotto attraverso lo Sportello del Contribuente, per eliminare le tre tasse che occupano il podio delle più odiate dagli italiani ha il suo perché.
Uno può pensare che sia logico pagare per avere le vie della città illuminate, le strade asfaltate, l’assistenza sanitaria, la scuola per i nostri figli, una rete decente di trasporto pubblico, un’amministrazione efficiente. Ma è normale pagare le accise su benzina ed energia per mantenere quello che non esiste più? È forse logico pagare ad un Comune una tassa di soggiorno quando la Costituzione riconosce la libera circolazione all’interno del territorio nazionale? Se poi pensiamo al canone tv, l’assurdità potrebbe toccare i livelli più alti.
Ecco, allora, le tre tasse che gli italiani non vogliono pagare. E perché, a pensarci bene, questo giudizio non è del tutto sbagliato.
La tassa più odiata degli italiani: le accise
Non poteva non essere la prima delle tre tasse che gli italiani non vogliono pagare: le accise sui carburanti è qualcosa che ai contribuenti proprio non va giù. E non è difficile capire perché.
Stiamo parlando di un’imposta sulla fabbricazione e sulla vendita di prodotti di consumo. Questo significa «accisa». La più diffusa (e la più odiata) è quella sul prezzo dei carburanti, che si paga in quasi tutti i Paesi del mondo non produttori di petrolio. In Italia, è stata introdotta gradualmente da quasi un secolo per far fronte a certe emergenze dovute soprattutto a calamità naturali o ad eventi militari. Nel 1995, le 19 accise attualmente esistenti sui carburanti in Italia sono state raggruppate in un’unica imposta che finanzia il bilancio dello Stato e che, quindi, non ha più alcun legame con le motivazioni originali delle accise stesse.
Per capirci, ogni volta che facciamo anche un solo litro di benzina o di gasolio oppure quando viene introdotto del Gpl nella bombola dell’auto, il conducente paga teoricamente per continuare a finanziare:
* la guerra in Etiopia del 1935-1936;
* la crisi di Suez del 1956;
* la ricostruzione dopo il disastro del Vajont del 1963;
* la ricostruzione dopo l’alluvione di Firenze del 1966;
* la ricostruzione dopo il terremoto del Belice del 1968;
* la ricostruzione dopo il terremoto del Friuli del 1976;
* la ricostruzione dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980;
* la missione Onu durante la guerra del Libano del 1982;
* la missione Onu durante la guerra in Bosnia del 1995;
* il rinnovo del contratto degli autoferrotranvieri del 2004;
* l’acquisto di autobus ecologici del 2005;
* l’emergenza terremoto in Abruzzo del 2009;
* il finanziamento alla cultura erogato nel 2011;
* la gestione degli immigrati dopo la crisi libica del 2011;
* l’emergenza alluvione in Liguria e Toscana del novembre 2011;
* il decreto Salva Italia del dicembre 2011;
* l’emergenza terremoti in Emilia del 2012;
* il finanziamento del bonus gestori e la riduzione delle tasse ai terremotati dell’Abruzzo;
* le spese del decreto Fare del 2014.
Un elenco, insomma, che si commenta da solo e che colloca l’accisa sul primo gradino del podio delle tasse che gli italiani non vogliono pagare. Anche perché queste 19 voci pesano complessivamente quasi il 40% sul prezzo finale del pieno di benzina e del gasolio. Se poi ci mettiamo il 22% di Iva, significa che del costo di un litro di carburante, lo Stato si porta a casa più della metà.
La seconda tassa più odiata dagli italiani: il soggiorno
Dice l’articolo 16 della Costituzione italiana: «Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza. Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche».
Certo, bisognerebbe vedere che cosa si intende esattamente non tanto per «circolare» quanto per «soggiornare liberamente» quando un turista italiano va in una struttura alberghiera di una qualsiasi località del nostro Paese e deve pagare una tassa per, appunto, «soggiornarci liberamente».
Partendo da questa riflessione, la tassa di soggiorno è la seconda delle tre tasse che gli italiani non vogliono pagare. Si tratta di soldi che vanno dritti nelle casse dei Comuni: sono gli Enti locali a stabilire l’importo della tassa e ad incassarla tramite l’albergatore. Viene richiesta per ogni notte di permanenza presso hotel, bed and breakfast, villaggi turistici, ecc. e va da un minimo di 1 euro ad un massimo di 5 euro. Ogni Comune è libero di applicarla o meno.
Il principio che «giustifica» il pagamento della tassa di soggiorno è che il turista beneficia dei servizi messi a disposizione dal Comune che lo ospita. Il ragionamento che fa chi contesta questo pagamento è: ma quei servizi non sono già finanziati dalle tasse dei residenti? E i turisti, attraverso i consumi in alberghi, ristoranti, ingressi a musei, bar, gelaterie e quant’altro non portano già un beneficio alla comunità locale, pagando oltretutto, su qualsiasi spesa facciano, l’Iva che è già un’imposta? Ma soprattutto: dov’è finito il principio costituzionale secondo cui uno è libero di soggiornare dove vuole nel territorio italiano quando questo soggiorno viene tassato?
La terza tassa più odiata dagli italiani: il canone Rai
Qui si apre un mondo. Il canone Rai è una delle tasse più discusse da decenni e, a quanto risulta dal recente sondaggio commissionato dall’Associazione Contribuenti-Aps, è la terza delle tre tasse che gli italiani non vogliono pagare.
Di incongruenze, l’abbonamento televisivo ne presenta parecchie. A partire dal nome: il canone Rai non si paga solo per guardare la tv di Stato ma solo per il fatto di avere un apparecchio televisivo in casa (o in un esercizio pubblico), tranne in qualche eccezione, come abbiamo spiegato nell’articolo Come non pagare il Canone Rai.
In teoria, sarebbe sbagliato parlare anche di «abbonamento» che, di norma, è un contratto scelto e sottoscritto da un cliente con chi presta un servizio. Qui, il telespettatore si trova il canone imposto, senza firmare alcunché e facendo come unica scelta quella di comprarsi un televisore, per il quale paga già un’imposta, cioè l’Iva.
E ancora: da quando il canone tv è stato introdotto, il modo di guardare la televisione si è radicalmente trasformato. Tant’è che oggi è possibile vedere quasi tutte le trasmissioni da un computer, da un tablet o da uno smartphone. Ergo, si potrebbe non comprare il televisore e guardare la tv da un dispositivo diverso senza pagare il canone. In più, la stessa Rai mette a disposizione i programmi trasmessi sulla piattaforma Internet Rai Play, visibile gratuitamente.
Insomma, una tassa da decine di euro all’anno difficile da capire e ancor più complicata da digerire.
Le altre tasse che gli italiani non vogliono pagare
Non ci vuole molto per capire che versare dei soldi allo Stato non è qualcosa che si fa volentieri. Ma per completezza (e anche per soddisfare la curiosità del lettore, che sarà necessariamente un contribuente), ecco le altre tasse che gli italiani non vogliono pagare. Nell’ordine, dal quarto posto in poi:
* l’Iva, cioè l’imposta sul valore aggiunto che viene applicata su qualsiasi bene di consumo o servizio acquistato e che in Italia, nella sua versione ordinaria, è al 22% contro il 19% di Romania e Cipro, il 18% di Malta o il 17% del Lussemburgo;
* il bollo auto;
* i tributi comunali, cioè Imu, Tasi e Tares;
* il ticket sanitario;
* i contributi per i consorzi di bonifica;
* l’Irpef.
Quando la misura dell’assegno può essere modificata, in base al cambiamento delle esigenze dei figli durante la crescita o alle variazioni reddituali dei genitori.
L’obbligo di mantenimento dei figli è un dovere costante dal momento della loro nascita e sino a quando essi non raggiungono la maggiore età e non diventano autosufficienti dal punto di vista economico; ma la misura della contribuzione dovuta nei loro confronti può variare, anche molto, nel corso del tempo. Così molti genitori tenuti a versare l’assegno, nella misura stabilita dal giudice della separazione o del divorzio, si chiedono: quando cambia il mantenimento dei figli?
Le variabili che incidono sul mantenimento dei figli da parte dei genitori sono sostanzialmente due: le esigenze dei figli, che evidentemente mutano in base alla loro crescita, e i redditi dei genitori, che possono non essere stabili e variare, in meglio o in peggio. Questi criteri, però, vanno contemperati fra loro, al fine di determinare la somma dovuta, tenendo presente che la revisione dell’importo non può essere arbitraria, ma deve essere stabilita dal giudice in tutti i casi di mancanza di accordo tra i genitori.
Mantenimento figli: chi deve provvedere?
L’obbligo di provvedere al mantenimento dei figli ricade su entrambi i genitori. L’art. 30 della Costituzione stabilisce che «è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio»: perciò non sussiste nessuna differenza tra figli legittimi e figli naturali, o tra genitori sposati e conviventi o non uniti in un legame.
L’art. 315 bis del Codice civile specifica i diritti e i doveri dei figli verso i genitori e dispone che:
- ogni figlio «ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni».
- il figlio deve anche «contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa».
Assegno di mantenimento figli: come si determina?
Nelle coppie di genitori separate o divorziate, l’ammontare dell’assegno di mantenimento per i figli può essere determinato in base all’accordo raggiunto tra i genitori, oppure, in caso di disaccordo, viene quantificato dal giudice, che decide operando un raffronto tra le loro rispettive capacità economiche. In ogni caso, il giudice «adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa».
L’art. 337 ter del Codice civile fissa i parametri essenziali, disponendo che «salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando:
- le attuali esigenze del figlio;
- il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori;
- i tempi di permanenza presso ciascun genitore.
- le risorse economiche di entrambi i genitori.
- la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore».
Non esiste, pertanto, una misura di contribuzione fissa e predeterminata, ma la percentuale di contribuzione di ciascun genitore varia in base a diversi fattori. Innanzitutto, si tiene conto della differenza tra il “genitore collocatario” – quello con cui i figli continuano a vivere abitualmente – e l’altro genitore, in favore del quale viene disposto il diritto di visita e di incontro nei periodi stabiliti. Di regola, è il genitore non collocatario che viene chiamato a versare l’assegno periodico di mantenimento dei figli, tenendo però conto che spesso l’altro genitore diventa assegnatario della casa coniugale, anche se non è di sua proprietà, e questo può incidere sulla quantificazione concreta della cifra.
Bisogna, poi, prevedere l’eventualità di coprire le spese straordinarie, cioè quelle non definibili a priori, e stabilire la percentuale di riparto tra i due genitori.
Quanto contano le capacità economiche dei genitori?
Le capacità economiche dei genitori incidono moltissimo sull’entità del mantenimento dei figli. Ad esempio, se entrambi lavorano ed hanno un reddito simile, di solito l’onere del mantenimento viene fissato a carico di ciascuno nella misura del 50% delle spese ordinarie e prevedibili; se invece il genitore collocatario non lavora ed è privo di redditi propri, l’altro genitore dovrà farsi carico della totalità delle spese.
Una nuova ordinanza della Corte di Cassazione ha precisato che l’obbligo di entrambi i genitori di contribuire alle spese di mantenimento dei figli sussiste «in proporzione alle proprie disponibilità economiche»; perciò il giudice, nel determinare l’importo dell’assegno per il minore, «deve considerare le «attuali esigenze del figlio», le quali non potranno peraltro non risentire del livello economico-sociale in cui si colloca la figura del genitore: ne consegue che nel quantificare l’ammontare del contributo dovuto dal genitore non collocatario per il mantenimento del figlio minore deve osservarsi il principio di proporzionalità, che richiede una valutazione comparata dei redditi di entrambi i genitori».
Revisione assegno mantenimento figli: come funziona?
La pronuncia della Suprema Corte – che si muove nel solco di una giurisprudenza divenuta ormai costante sul punto – apre la possibilità di una revisione dell’assegno di mantenimento dei figli in tutti i casi in cui si registrano fattori sopravvenuti rispetto a quelli considerati nella determinazione originaria della cifra. Nella vicenda decisa dai giudici di piazza Cavour, l’importo è stato elevato a 600 euro mensili a fronte dei 400 riconosciuti in precedenza.
A parte l’adeguamento periodico dell’importo dell’assegno di mantenimento in base agli indici Istat per tenere conto dell’inflazione, la variazione della cifra può essere chiesta al giudice evidenziando i fatti sopravvenuti che hanno comportato:
- una modifica – migliorativa o peggiorativa – dei redditi e delle condizioni economiche generali di uno dei genitori, o di entrambi;
- il cambiamento delle esigenze dei figli che, come abbiamo visto, ai fini del mantenimento devono essere sempre rapportate a quelle «attuali».
Ad esempio, un figlio divenuto adolescente ha bisogni diversi da quelli di un bambino piccolo, e ciò può richiedere un aumento delle spese di mantenimento dovute in suo favore; viceversa, il contributo economico potrà essere revocato nel caso di figlio adulto che non lavora e non studia. Talvolta, è il genitore obbligato al pagamento dell’assegno che subisce un peggioramento delle condizioni economiche – come nel caso di licenziamento – e ciò potrà comportare una riduzione dell’importo, fermo restando che le necessità basilari del figlio dovranno comunque essere soddisfatte. Allo stesso modo, se è il genitore con cui i figli convivono che perde il lavoro, l’entità del contributo posto a carico dell’altro genitore dovrà aumentare.
Ai fini dell'addebito della separazione è sufficiente l'abbandono del tetto coniugale perché tale condotta viola il dovere di convivenza, a meno che non sia motivato dalla condotta dell'altro coniuge
Addebito per il coniuge che abbandona il tetto coniugale
La mancata prova del tradimento non impedisce la pronuncia di addebito della separazione se il marito ha abbandono la casa coniugale. Basta la violazione del dovere di convivenza, ai fini dell'addebito, a meno che emerga che l'allontanamento è stato causato dalla condotta dell'altro coniuge. Questo il concetto ribadito dalla Cassazione nell'ordinanza 16242/2022 che ha respinto il ricorso avanzato dal marito.
La vicenda processuale
La Corte d'Appello, in una causa di separazione coniugale, accoglie l'impugnazione della moglie, dichiara l'addebito della separazione al marito e ridetermina l'assegno di mantenimento in favore della donna.
Dichiarazioni de relato senza valore
Il marito nel ricorso in Cassazione contesta la decisione relativa all'addebito. Le testimonianze che dimostrano la sua colpa in relazione all'infedeltà sono infatti solo dichiarazioni "de relato ex parte" per cui non hanno valore di prova.
Addebito per violazione del dovere di convivenza
Per la Cassazione, è vero che il marito ricorrente ha riscontrato e sollevato vizi nella decisione della Corte di appello per quanto riguarda la relazione extraconiugale, che lo stesso non ritiene provata da mere testimonianze de relato ex parte.
Vero però altresì che lo stesso non ha censurato la decisione in relazione all'abbandono del tetto coniugale. Esso, poiché si traduce nella violazione del dovere di convivenza, è da solo sufficiente a giustificare l'addebito della separazione. Il tutto ovviamente e a meno che non si riesca a dimostrare che l'abbandono è stato motivato dalla condotta dell'altro coniuge, oppure sia conseguenza di una intollerabilità della convivenza preesistente.
Il ricorso quindi è inammissibile per gli Ermellini, perché se la sentenza è retta da ragioni distinte e autonome, ognuna delle quali sufficienti dal punto di vista logico e giuridico a giustificare la decisione, l'omessa impugnazione di una sola di esse comporta l'inammissibilità, per difetto di interesse, della censura sulle altre ragioni. La motivazione non impugnata diventa infatti autonoma e non è in grado di determinare, comunque, l'annullamento della sentenza.
WhatsApp, stop al partner infedele: il trucco per leggere le chat Tecnoandroid
WhatsApp all’interno di una relazione stabile di coppia può essere di strategica importanza. La chat, oltre ad essere un punto di riferimento per la quotidianità di un legame affettivo, in alcune circostanze può garantire informazioni molto importanti. Proprio attraverso WhatsApp da tempo emergono gran parte degli episodi di infedeltà.
WhatsApp, il nuovo trucco per scoprire l’infedeltà del partner
E’ prassi comune che, dinanzi a sospetto di tradimento da parte del proprio partner, gli utenti si affidino proprio a WhatsApp per ricevere maggiori informazioni. La lettura dei messaggi può essere la prova decisiva per decretare o meno l’atto di infedeltà del proprio lui o della propria lei.
La maggior parte delle persone sceglie di leggere, a tal proposito, direttamente le conversazioni dallo smartphone del partner. Il sistema della lettura diretta, seppur molto semplice da attuare, non sempre è redditizio. Chi ha qualcosa da nascondere infatti potrebbe aver tempo per eliminare ogni genere di contenuto sospetto.
Gli iscritti a WhatsApp, a tal proposito, possono mettere in atto un secondo metodo, molto più valido in termini di risultati. Questo metodo prevede l’ausilio di una piattaforma come WhatsApp Web.
Gli utenti della chat di messaggistica, a tal proposito, hanno la possibilità di effettuare una copia delle conversazioni dello smartphone su un pc. La sincronizzazione delle chat avviene per mezzo di una funzione del menù Impostazioni.
Stando a questa funzione, per leggere tutte le chat del partner, sarà necessario aver accesso allo smartphone altrui anche per pochi secondi e avere un pc a propria disposizione. Le conversazioni con questo metodo saranno anche aggiornate in tempo reale.
Ecco alcune delle più interessanti sentenze della Cassazione in materia di separazione consensuale:
Cassazione n. 11486/2022
L'atto con il quale un coniuge, in esecuzione degli accordi intervenuti in sede di separazione consensuale, trasferisca all'altro il diritto di proprietà (ovvero costituisca diritti reali minori) su un immobile, esso si ritiene ugualmente suscettibile di azione revocatoria ordinaria, non trovando tale azione ostacolo né nell'avvenuta omologazione dell'accordo suddetto - cui resta estranea la funzione di tutela dei terzi creditori e che, comunque, lascia inalterata la natura negoziale della pattuizione -, né nella circostanza che l'atto sia stato posto in essere in funzione solutoria dell'obbligo di mantenimento del coniuge economicamente più debole o di contribuzione al mantenimento dei figli.
Cassazione n. 41232/2021
L'assegno di mantenimento a favore del coniuge, fissato in sede di separazione personale consensuale in omologa di accordo che non ne preveda la decorrenza, è dovuto, sia pure a condizione che l'omologa intervenga e non disponga diversamente, fin dal momento del deposito del ricorso per separazione e non solo dalla data di pronuncia dell'omologa.
Cassazione n. 17908/2019
Le attribuzioni patrimoniali dall'uno all'altro coniuge concernenti beni mobili o immobili, in quanto attuate nello spirito degli accordi di sistemazione dei rapporti fra i coniugi in occasione dell'evento di separazione consensuale, sfuggono sia alle connotazioni classiche dell'atto di "donazione" vero e proprio, e dall'altro, a quello di un atto di vendita; tali attribuzioni svelano una loro "tipicità", la quale, di volta in volta, può colorarsi dei tratti della obiettiva "onerosità", ai fini della più particolare e differenziata disciplina di cui all'art. 2901 c.c., in funzione della eventuale ricorrenza, nel concreto, dei connotati di una sistemazione "solutorio-compensativa" più ampia e complessiva, di tutta quella serie di possibili rapporti aventi significati (o eventualmente, solo riflessi) patrimoniali, i quali, essendo maturati nel corso della (spesso anche lunga) quotidiana convivenza matrimoniale, per lo più non si rendono perciò sempre - guardati con sguardo retrospettivo immediatamente riconoscibili come tali.
Cassazione n. 6145/2018
La situazione di intollerabilità della convivenza può dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco spirituale anche di uno solo dei coniugi, e, pertanto, il Tribunale è tenuto a pronunciare la sentenza non definitiva di separazione (scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio) quando la causa sia, sul punto, matura per la decisione, facendo ad essa seguito la prosecuzione del giudizio per le altre statuizioni. Tale pronuncia non definitiva costituisce uno strumento di accelerazione dello svolgimento del processo che non determina un'arbitraria discriminazione nei confronti del coniuge economicamente più debole, sia perchè è sempre possibile richiedere provvedimenti temporanei ed urgenti, ai sensi della L. n. 898 del 1970, art. 4, peraltro modificabili e revocabili dal giudice istruttore al mutare delle circostanze, sia per l'effetto retroattivo, fino al momento della domanda, che può essere attribuito in sentenza al riconoscimento dell'assegno di divorzio; pertanto, deve reputarsi manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 9, (nel testo sostituito della L. n. 74 del 1987, art. 8), sollevata in riferimento agli artt. 2, 29 e 111 Cost.
Cassazione n. 16909/2015
La separazione consensuale è un negozio di diritto familiare il cui contenuto essenziale è rappresentato dal consenso reciproco a vivere separati, dall'affidamento dei figli e, ove ne ricorrano i presupposti, dall'assegno di mantenimento. Esso ha poi un contenuto eventuale, che trova solo occasione nella separazione e che è rappresentato da accordi patrimoniali autonomi conclusi dai coniugi in relazione all'instaurazione di un regime di vita separata.
La procedura dinanzi all’ufficiale di Stato civile del Comune per la separazione, il divorzio e la modifica delle condizioni di separazione e divorzio.
La coppia sposata che voglia separarsi, oppure la coppia già separata che voglia divorziare, può dirsi addio anche in Comune, presentandosi all’ufficio di stato civile: una novità entrata in vigore poco meno di due anni fa che, tuttavia, è consentita solo a determinate condizioni. In questa breve scheda, vi spiegheremo come separarsi o divorziare in Comune, tutti gli adempimenti burocratici da compiere, i documenti da presentare e i passi da seguire per procedere senza bisogno di avvocati e giudice.
Quando ci si può separare o divorziare in Comune?
La separazione o il divorzio in Comune, presso l’ufficio di stato civile, è consentito solo a determinate condizioni:
- la coppia non deve avere avuto figli dall’unione i quali siano ancora minorenni, maggiorenni non autosufficienti, portatori di handicap o incapaci. Non vengono considerati i figli nati da eventuali precedenti relazioni: per cui la loro presenza non è ostativa alla separazione in Comune. È possibile la separazione o il divorzio in Comune se la prole ormai lavori e sia indipendente da un punto di vista economico;
- la coppia deve avere trovato un accordo su tutti gli aspetti della separazione, sia per quanto riguarda le questioni più marcatamente personali che patrimoniali. In buona sostanza, la separazione o il divorzio in Comune sostituiscono la cosiddetta separazione / divorzio consensuale che prima si faceva, in un’unica udienza, davanti al Presidente del Tribunale;
- l’accordo non può disciplinare trasferimenti patrimoniali tra i coniugi come, ad esempio, l’assegnazione della casa, arredi e altri mobili presenti nell’abitazione, l’autovettura, conti correnti bancari, titoli, depositi, libretti di risparmio, ecc. In termini pratici questo significa che marito e moglie non potranno stabilire, nell’atto firmato in Comune, la divisione di beni come l’armadio, la televisione, la macchina, ecc. Dovranno farlo, allora, con un’autonoma scrittura privata tra questi firmata in separata sede oppure ricorrendo alla negoziazione assistita degli avvocati, che è un ulteriore mezzo per separarsi o divorziare (di cui parleremo più in là in questa scheda).
L’accordo può contenere anche patti aventi ad oggetto l’assegno di mantenimento e l’assegno divorzile.
Per coloro che vogliano separarsi consensualmente ma che non si trovano nelle condizioni appena elencate (per es. per via della presenza di figli minori o perché intendano effettuare trasferimento patrimoniali), la legge prevede la possibilità di rivolgersi, oltre che al Tribunale, anche direttamente ai propri avvocati attraverso il procedimento chiamato “negoziazione assistita”.
Dove ci si deve presentare per separarsi o divorziare?
I coniugi possono recarsi sia presso il Comune ove hanno contratto matrimonio che presso il Comune di residenza di uno dei due coniugi o di entrambi. In particolare bisognerà presentarsi all’Ufficio di stato civile.
Quali documenti occorrono per separarsi o divorziare?
Quanto alla documentazione necessaria per attivare il procedimento innanzi all’ufficio di stato civile, è necessario:
- per la separazione: documento di identità dei coniugi e l’autocertificazione qui allegata (si rilascia la copia in uso a Milano) contenente le dichiarazioni sulla residenza, luogo e data di matrimonio, assenza di figli.
- per il divorzio: documento di identità dei coniugi; l’autocertificazione qui allegata (si rilascia la copia in uso a Milano) contenente le dichiarazioni sulla residenza, luogo e data di matrimonio, assenza di figli. Andrà poi presentata la copia conforme rilasciata dalla cancelleria del tribunale della sentenza di separazione giudiziale (se i coniugi si erano separati in via giudiziale in tribunale) o del decreto di omologa di separazione (se i coniugi si erano separati consensualmente in tribunale) o l’originale dell’accordo di separazione (se i coniugi si erano separati con la negoziazione assistita).
Quali costi bisogna sostenere?
Per separarsi o divorziare in Comune non è dovuto solo un diritto fisso di € 16,00 in contanti. Non essendo necessari avvocati, non ci saranno altri costi da sostenere.
Quale procedimento seguire per separarsi o divorziare?
In alcuni Comuni è richiesto un primo e informale incontro solo al fine di verificare la documentazione e la competenza dell’ufficio a ricevere l’atto. Viene quindi avanzata la richiesta di avvio del procedimento (in alcuni Comuni è richiesta la compilazione di un modulo prestampato). In altri Comuni, invece, si deve telefonare per concordare un appuntamento per procedere all’iter di separazione o divorzio.
La procedura vera e propria viene cadenzata in due incontri:
- al primo incontro il Sindaco o l’ufficiale di stato civile redige l’accordo di separazione che i coniugi gli riferiscono avere raggiunto. Dopo aver compilato l’accordo, il pubblico ufficiale dà ai coniugi appuntamento per un secondo incontro che non può essere prima di 30 giorni;
- al secondo incontro, viene richiesto ai coniugi di confermare l’intenzione di separarsi o di divorziare. La ragione di questo lasso di tempo è per consentire loro una pausa di riflessione sulla scelta in atto.
Se al secondo appuntamento si presentano entrambi i coniugi l’accordo di separazione è valido ed ha la stessa efficacia della sentenza di separazione omologata dal tribunale. Il Comune, a questo punto, invia l’atto agli uffici competenti per le annotazioni sull’atto di matrimonio. I coniugi possono sempre chiedere una copia autentica dell’accordo depositato in Comune.
Se, invece, al secondo appuntamento non si presenta uno o entrambi i coniugi, l’accordo di separazione non è valido e decade. I coniugi potranno tuttavia presentarsi in qualsiasi successivo momento per avviare, di nuovo, l’intera procedura da capo: il fatto di aver fatto decadere un primo tentativo non preclude la possibilità di riprovarci in seguito.
È necessaria la presenza dell’avvocato?
Nella separazione o divorzio davanti al Comune non c’è bisogno di avvocati; tuttavia nulla esclude che una delle due parti o entrambi si facciano accompagnare da altri soggetti, ivi compreso il difensore.
Dopo quanto tempo il divorzio dalla separazione?
Per chi si è separato e vuole divorziare in Comune, il procedimento può essere attivato solo a condizione che:
- siano decorsi sei mesi, se la precedente separazione era stata consensuale (in tribunale, in Comune o con la negoziazione assistita);
- sia decorso un anno, se la precedente separazione era stata “giudiziale” (ossia con una causa in tribunale).
Modifica degli accordi
Insieme agli accordi di separazione o divorzio i coniugi possono regolare in Comune anche eventuali modifiche degli accordi di separazione o divorzio precedentemente fissati.
L’iter e le condizioni sono le stesse analizzate sino a qui: pertanto è consentita la modifica degli accordi a condizione che non vi siano figli minori o figli maggiorenni portatori di handicap grave o economicamente non autosufficienti. Le condizioni oggetto della modifica non dovranno essere relativi a patti di trasferimento patrimoniale con effetti reali .
Anche per la modifica è previsto il deposito di un’autocertificazione e due incontri. Il costo è di 16 euro a titolo di diritto fisso.
Se uno dei due coniugi non vuole venire in Comune?
Per la separazione o il divorzio in Comune è necessario il consenso di entrambi i coniugi. Pertanto, se manchi uno dei due coniugi la procedura suddetta non può essere espletata e non resta che la separazione giudiziale in tribunale.
La negoziazione assistita
La legge prevede anche l’istituto della convenzione di negoziazione assistita davanti ad avvocati nominati dai coniugi per le soluzioni consensuali di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio o di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio.
Tali convenzioni possono essere stipulate in presenza di figli minori o maggiorenni incapaci, o con un grave handicap o economicamente non autosufficienti.
L’accordo può contenere patti di natura patrimoniale (economici e finanziari) tra i coniugi.
Per redigere queste convenzioni i coniugi devono rivolgersi ad avvocati di loro fiducia.
L’invio all’Ufficio di Stato civile delle convenzioni deve essere curata dagli avvocati che hanno prestato assistenza ai coniugi. L’invio della documentazione può essere effettuato anche a cura di un solo avvocato che abbia assistito uno dei coniugi ed autenticato la sottoscrizione.
In alcuni Comuni è richiesta la procedura telematica, per cui ogni avvocato, coinvolto nella negoziazione assistita, deve inviare all’ufficio dello stato civile una copia della convenzione, riprodotta tramite scanner e accompagnata da una sua dichiarazione che attesti che tale copia è relativa all’originale cartaceo (usare formato pdf firmato digitalmente).?
In caso di convenzione di divorzio gli avvocati dovranno inviare copia conforme rilasciata dalla cancelleria del tribunale della sentenza di separazione giudiziale o del decreto di omologa di separazione o l’originale dell’accordo di separazione. Questa deve essere inclusa nel file che contiene la convenzione firmata digitalmente.
Come dimostrare l’infedeltà coniugale: tutto ciò che non si può fare e che si può fare. Quando la ricerca delle prove di un tradimento diventa reato.
Benché l’infedeltà sia ancora una delle cause più ricorrenti di separazioni tra coniugi, dimostrare un tradimento non è facile. E questo perché, da un lato, le prove che si possono presentare in tribunale devono essere sempre acquisite nel rispetto dell’altrui privacy. E dall’altro perché, il più delle volte, il rapporto extraconiugale si consuma in ambienti chiusi, privi di testimoni. Non resta che la confessione da parte dello stesso coniuge fedifrago. Ma anche in questo caso ci si può imbattere in qualche problema di carattere processuale. Il fatto di confessare un tradimento non vale sempre come prova in tribunale. Ma sul punto sarà bene fare alcune riflessioni rispondendo alle domande più frequenti che si pongono sul tema.
Quali prove di un tradimento?
Dicevamo che dimostrare un tradimento è compito piuttosto arduo. Le prove in un processo civile sono normalmente costituite da documenti e testimonianze oppure dalla confessione fatta in causa dinanzi al giudice. Ma, nell’ambito di un giudizio di separazione o divorzio, difficilmente è possibile raggiungere tali risultati.
Per comprendere ciò che stiamo per dire è bene partire da un concetto giuridico cardine di ogni processo: non sono utilizzabili le prove acquisite in violazione della legge e, in particolare, della privacy altrui. Ragion per cui, per dimostrare un tradimento, bisogna agire non in modo scorretto ma nel rispetto delle leggi. Vedremo qui di seguito quali prove non sono ammesse.
Quali prove di un tradimento non sono ammesse in processo
Entrare nell’account social o nelle email del coniuge senza il suo consenso, per spiare il contenuto delle sue conversazioni, è illegale e integra un reato, quello di «accesso abusivo a sistema informatico». Non conta il fatto di aver ricevuto in passato la username e la password per altre finalità: ogni accesso deve essere specificamente autorizzato.
Strappare di mano il cellulare del coniuge per vedere con chi chatta è reato: quello di rapina. Così almeno ha sentenziato più di una volta la Cassazione.
Lasciare un registratore acceso in casa per sentire cosa dice il coniuge quando non si è dentro integra il reato di indebite interferenze nella vita privata. E lo stesso se si attiva un gps e lo si nasconde nell’auto.
Leggere le chat contenute in uno smartphone protetto da password o comunque custodito in un posto riservato è ugualmente reato di violazione della privacy.
Cosa resta da fare? L’unico modo è pizzicare il fedifrago con le mani nel sacco. Come? Ad esempio con una prova fotografica, realizzata magari da un investigatore privato. Quantomeno pedinare una persona, purché non si venga visti e non si generi allarme e preoccupazione nel soggetto in questione, non è reato.
Ma attenzione perché le foto possono essere contestate facilmente, non essendo facile risalire in modo certo alla data (i dati informatici presenti sul file non costituiscono una prova certa).
La confessione di un tradimento vale come prova?
Non resta che sperare in una confessione da parte del traditore. Una confessione che, per avere pieno valore, andrebbe fatta dinanzi al giudice perché solo in questo caso costituirebbe una “prova legale”, ossia certa e inoppugnabile.
Le cose vanno diversamente se la confessione avviene oralmente, nell’ambito di una discussione casalinga, e in assenza di testimoni. Questo perché le dichiarazioni delle parti in causa, ossia dei due coniugi, non possono essere assunte come prova in un processo civile. E quindi il giudice non potrà tenere conto del fatto che il coniuge tradito assuma che, nel corso di una lite, l’altro gli ha rivelato la propria relazione adulterina. Potrebbe registrarlo: e in quel caso la registrazione costituirebbe prova, purché non avvenga in casa. Le registrazioni all’insaputa dei presenti sono infatti lecite a patto che non avvengano nel domicilio del soggetto registrato.
Ultima ipotesi: stimolare la confessione in una chat sul telefonino, ad esempio tramite WhatsApp. E le chat fanno piena prova se colui contro il quale viene prodotta non le disconosce in giudizio. Disconoscimento che non può essere generico ma deve motivare le ragioni concrete per cui la riproduzione della schermata deve ritenersi non genuina.
Proprio di recente il tribunale di Monza si è trovato a giudicare il caso di una confessione di un tradimento fatta dalla moglie al marito in una conversazione su WhatsApp. La moglie è stata inchiodata all’addebito della separazione perché aveva ammesso il tradimento del marito sulla chat. Inutile poi tentare di disconoscere la conversazione, quantomeno sulla certezza della data, per evitare che la relazione extraconiugale confessata fosse ritenuta il fatto scatenante che aveva fatto naufragare il matrimonio. Il contenuto delle conversazioni può essere valutato dal giudice in termini di presunzioni semplici, in quanto gravi, precise e concordanti.
Decisivi, quindi, nel caso si specie, gli estratti dall’applicazione di messaggistica prodotti dal marito: nel tentativo di riappacificarsi con l’uomo al corrente del tradimento la signora aveva ammesso quantomeno di aver «baciato» il collega di lavoro. E i messaggini WhatsApp sono assimilabili agli sms: rientrano nelle riproduzioni meccaniche e fanno piena prova contro colui il quale la chat è prodotta a meno che l’interessato non ne contesti la conformità ai fatti e alle cose rappresentate.
Come funziona il diritto di abitazione: quando la casa viene data all’ex moglie e come non perderla. Il caso della coppia convivente e di quella sposata.
La nostra legge prevede che, quando si separano due genitori di figli ancora minori o se maggiorenni non ancora autosufficienti, in mancanza di diverso accordo, il giudice affida la casa al genitore “collocatario”, quello cioè con cui, sempre secondo il giudice, i figli devono andare a vivere giornalmente. A questi viene attribuito il cosiddetto “diritto di abitazione”. Cerchiamo di approfondire il discorso e di vedere come viene assegnata la casa familiare in caso di separazione.
Quando viene assegnata la casa familiare?
Presupposto essenziale per l’assegnazione della casa familiare è che ci sia una coppia con figli che intende separarsi. Non importa se si tratta di una coppia sposata o solo convivente: in entrambi i casi, il giudice può decidere in merito all’attribuzione del diritto di abitazione all’interno dell’immobile che un tempo era il tetto domestico.
Il secondo presupposto per l’assegnazione della casa è che i figli siano ancora minorenni, o portatori di handicap o, se maggiorenni, siano non ancora autosufficienti dal punto di vista economico: il che richiede che stiano ancora studiando o si stiano formando. Diversamente, se il figlio non fa nulla per cercare un’occupazione o, già grande, vive alle spalle dei genitori, non solo non avrà diritto al mantenimento ma il genitore con cui convive perderà il diritto di rimanere nella casa familiare.
Il terzo presupposto per l’assegnazione della casa familiare è che vi sia una procedura di separazione giudiziale. Difatti, un eventuale accordo tra i genitori escluderebbe qualsiasi ingerenza da parte del giudice.
A chi va la casa familiare?
La casa familiare viene assegnata al genitore che, secondo il parere del giudice, è il più adatto a prendersi cura giornalmente della prole. Inutile dire che, nella stragrande maggioranza dei casi, questo è la madre. È il cosiddetto “genitore collocatario”, concetto completamente diverso da quello di affidamento.
L’affidamento consiste nei poteri-doveri dei genitori di prendere le decisioni più importanti in merito alla crescita, educazione, istruzione, salute dei minori. Di solito, l’affidamento è sempre condiviso: spetta cioè in pari misura sia al padre che alla madre i quali pertanto, quando si tratta di prendere le decisioni di “straordinaria amministrazione” dovranno prima confrontarsi e trovare un’intesa. La collocazione invece non può che avvenire in via preferenziale presso la casa di uno solo dei genitori.
Perché il giudice assegna la casa familiare?
Scopo dell’assegnazione della casa familiare non è un sostegno economico al genitore collocatario ma una tutela in più alla prole, affinché i figli non abbiano cioè a subire un ulteriore trauma, derivante dal trasferimento, oltre a quello della disgregazione del nucleo familiare.
Proprio perché la finalità è quella di tutelare i figli, l’assegnazione della casa familiare avviene sia nei confronti della coppia sposata che di quella di conviventi.
Come funziona l’assegnazione della casa familiare?
Il giudice assegna la dimora familiare e non un immobile qualsiasi: si tratta cioè dell’abitazione ove la famiglia viveva stabilmente prima della separazione. Quindi, in presenza di un nucleo familiare con più abitazioni, il giudice concederà il diritto di abitazione solo nella casa che era dimora abituale della coppia.
Chiaramente, il diritto di abitazione viene dato in pregiudizio del diritto del proprietario dell’immobile che dovrà perciò andare via.
La giurisprudenza ritiene che il diritto di abitazione debba essere concesso anche sulla casa concessa alla coppia in comodato da terzi (ad esempio dai genitori di uno dei due genitori), sempre che il contratto non prevedesse una data di scadenza.
Se l’ex moglie ha già una casa le spetta l’assegnazione della casa familiare
Il giudice può assegnare la casa coniugale alla moglie presso cui vivono i figli anche se questa è titolare di un proprio immobile, ove però la famiglia non viveva.
Come evitare l’assegnazione della casa familiare
L’unico modo per evitare l’assegnazione del proprio immobile all’ex coniuge è di non viverci, ossia di non adibirlo a dimora familiare. Come detto, infatti, il giudice assegna solo la casa ove la coppia viveva stabilmente prima della separazione.
Quando cessa l’assegnazione della casa?
Il diritto di abitazione viene meno quando i figli diventano grandi e possono mantenersi da soli, o quando diventano indipendenti economicamente, o quando decidono di andare a vivere altrove, o quando è lo stesso genitore con cui vivono che si trasferisce. Ma per riottenere il proprio immobile è necessario prima presentare ricorso al giudice affinché modifichi il proprio precedente provvedimento.
Rivelare un tradimento, comunicare al coniuge tradito la propria relazione, diffondere il fatto tra estranei è reato.
Rubare il marito a una donna non è reato. Da un lato, infatti, l’infedeltà non è un illecito penale ma solo civile. Dall’altro lato, tale illecito vale solo per le persone sposate e non per i terzi che ben potrebbero intromettersi in una relazione tra due persone senza per questo violare la legge. L’obbligo di fedeltà, del resto, vale solo per moglie e marito e non per gli estranei la cui libertà sessuale è tutelata dalla legge.
Ci sono però dei casi in cui l’amante può essere denunciata. E ciò succede, il più delle volte, quando è animata da propositi di vendetta. Ad esempio: cosa rischia l’amante che rivela la relazione al coniuge tradito o che la diffonde in pubblico?
La questione è stata oggetto di diverse pronunce da parte della giurisprudenza. Vediamo quando l’amante può essere denunciata.
Denunciare l’amante che entra in casa
Una ormai storica sentenza della Corte di Appello di Cagliari ha condannato l’amante per violazione di domicilio per essere entrata in casa del partner sposato quando il coniuge di questi era assente. La mancanza di consenso da parte del detentore dell’immobile – non importa se non ne sia anche il proprietario formale – integra il delitto in questione e può costare una condanna penale.
Denunciare l’amante che si vendica
Rivelare la propria relazione al coniuge del proprio amante è reato. Inviargli messaggi o chiedergli un appuntamento per svelargli tutto costituisce un illecito penale. Secondo la giurisprudenza, si può sporgere una querela per il reato di molestie. Che di certo non è un reato particolarmente grave ma peserà comunque sulla fedina penale dell’imputato e, dall’altro lato, lo obbligherà a pagare un avvocato per difendersi.
In un caso recentemente deciso dalla Cassazione, è stata condannata una donna che, tramite WhatsApp, aveva inviato alla moglie tradita immagini che testimoniano, in maniera inequivocabile, la concretezza della relazione avuta col marito fedifrago.
A finire sotto processo è una donna, Franca – nome di fantasia –. A farla finire sotto accusa sono alcuni Sacrosanta, secondo i giudici, la condanna per l’amante ritenuta colpevole di molestia ai danni della donna sposata.
Denunciare l’amante che rivela la relazione
L’amante che si confida con un’amica e le comunica la propria relazione con un uomo sposato non è responsabile di alcun reato né di un illecito civile. Ma può essere querelata per diffamazione se il suo comportamento si ripete con almeno due persone. E questo perché, così facendo, mina all’onore e alla reputazione del coniuge tradito e del traditore. Si può sporgere la querela entro 3 mesi da quando si è venuti a conoscenza del comportamento.
Secondo la Cassazione, rivelare in pubblico che una persona tradisce il coniuge è reato di diffamazione. Difatti tali informazioni, anche se fondate, mettono alla berlina sia il traditore che il tradito. Si crea cioè un danno alla reputazione di entrambi i coniugi e della famiglia stessa.
Si possono chiedere i danni all’amante?
Come anticipato in apertura, al di fuori dei reati appena elencati, non si può chiedere all’amante il risarcimento dei danni per aver sfasciato il proprio matrimonio e per aver magari inferto una profonda ferita ai figli. E, del resto, secondo la giurisprudenza, neanche il coniuge traditore deve risarcire il danno al tradito a meno che la relazione adulterina sia avvenuta in modo plateale, dinanzi a tutti, da incidere sulla reputazione di quest’ultimo. Fuori da questo caso isolato (isolato perché, di solito, i tradimenti si consumano in segreto), il traditore va incontro a due sole conseguenze:
- la perdita della possibilità di chiedere il mantenimento, qualora ne avesse avuto diritto per via delle sue condizioni economiche disagiate;
- la perdita dei diritti ereditari sull’ex.
Come vincere una causa di separazione e divorzio: che valore hanno le prove, chi può testimoniare e quali fatti dimostrare al giudice.
Le cause si vincono sulla base delle prove. Non basta avere ragione e affermare il proprio diritto con gran forza. Né è sufficiente avere un avvocato dotato della miglior retorica. E così anche le cause di separazione e divorzio necessitano di prove. Almeno quelle giudiziali, che non si chiudono con un accordo. Ma quali sono le prove in una causa di divorzio e soprattutto a cosa servono? Cosa è necessario dimostrare al giudice? Cerchiamo di fare un passo indietro. All’esito di questo articolo avremo dato al lettore non solo qualche cognizione di diritto processuale ma anche dei validi suggerimenti su come vincere la causa di separazione o divorzio. Ma procediamo con ordine.
Perché la causa di separazione o divorzio?
Separazione e divorzio possono realizzarsi o con l’accordo delle parti oppure nel corso di una causa. Nel primo caso si parla di separazione o divorzio consensuale, nel secondo caso di separazione o divorzio giudiziale.
La procedura consensuale si può realizzare in tre modi diversi:
- dinanzi al giudice (precisamente davanti al Presidente di Sezione), in un’unica udienza il cui questi, dopo aver tentato una (formale) conciliazione tra le parti, dà lettura dell’accordo da queste previamente concordato (per come redatto dai rispettivi avvocati) e lo approva;
- dinanzi all’ufficiale di stato civile del Comune (o davanti al sindaco stesso), in due incontri differenti con una distanza di 30 giorni l’uno dall’altro. Tale possibilità è ammessa solo in assenza di figli minori, portatori di handicap o maggiorenni non ancora autosufficienti. Inoltre non sono ammessi, nell’accordo, patti di trasferimento di beni (che andranno regolamentati con contratti autonomi). Per sapere di più leggi Separazione e divorzio in Comune: come si fa;
- con un accordo stilato e firmato con l’assistenza dei rispettivi avvocati e da questi poi depositato in tribunale: è la cosiddetta negoziazione assistita.
La procedura giudiziale invece consiste in una causa vera e propria, che inizia con l’atto di ricorso presentato da uno dei coniugi e la difesa successiva dell’altro. Il giudice ammette le prove richieste dalle parti e poi emette la sentenza.
La causa di separazione e divorzio viene intrapresa perché i coniugi non sono riusciti a trovare un accordo su uno o più aspetti dei loro rapporti economici o personali conseguenti alla cessazione del matrimonio. Essa potrebbe pertanto riguardare ad esempio:
- l’ammontare del mantenimento per l’ex coniuge più povero;
- l’ammontare del mantenimento per i figli;
- la collocazione dei figli presso uno dei genitori;
- l’affidamento dei figli (se congiunto o condiviso);
- le modalità di visita dei figli e la possibilità di un coniuge di trasferirsi altrove.
Perché le prove sono necessarie in una causa di separazione o divorzio?
Di solito, le prove sono più importanti nella causa di separazione che in quella di divorzio, dove normalmente il giudice si limita a prendere atto di quanto già era stato deciso nel precedente step della separazione, salvo siano intervenuti eventi nuovi e imprevedibili che abbiano mutato la situazione di fatto (ad esempio, un arricchimento o un impoverimento di uno dei due ex coniugi con conseguente richiesta di incremento o di riduzione dell’assegno di mantenimento; inadeguatezza di uno dei due coniugi ai compiti di genitore, ecc.).
Gli accordi stretti in sede di separazione non sono vincolanti con il divorzio. Ad esempio, se un coniuge, all’atto della separazione, rinuncia al mantenimento in cambio del trasferimento della proprietà di un immobile, con il divorzio potrebbe modificare la propria pretesa e pretendere anche l’assegno.
Di solito, le prove sono volte a dimostrare:
- la responsabilità di uno dei due coniugi nell’aver determinato, con il proprio comportamento, la crisi del matrimonio. Il che ne comporta l’imputazione di addebito, con conseguente perdita del diritto al mantenimento e della qualità di erede legittimario;
- la sussistenza di redditi nascosti e non dichiarati che potrebbero determinare un maggior importo del mantenimento;
- le esigenze economiche del coniuge che richiede il mantenimento o, al contrario, l’incapacità dell’altro di provvedervi per come richiesto dall’ex;
- l’inattitudine di uno dei due coniugi a gestire i figli o a prendere le decisioni più adeguate per la loro crescita. Nel primo caso, la battaglia si concentrerà sulla collocazione dei figli e, nel secondo, sull’affidamento.
Quali prove portare in una causa di separazione o divorzio?
Nel processo civile le prove sono “tipiche” ossia unicamente quelle indicate dal Codice civile. Solo oggi i giudici si stanno aprendo anche alle prove atipiche, come ad esempio le chat, gli screenshot, le email semplici.
Le prove in una causa di separazione o divorzio sono dunque quelle di qualsiasi altro processo. Le elencheremo qui di seguito.
Testimonianza
Possono testimoniare in causa tutti i soggetti, compresi parenti, affini e figli, tranne i due coniugi.
La testimonianza dei minori deve essere disposta con le opportune cautele per tutelare la loro psiche.
Il bambino con più di 12 anni deve essere obbligatoriamente sentito quando si decide sul suo collocamento e affidamento.
Il testimone è solo colui che ha visto i fatti o ne ha cognizione diretta (non sono ammessi i testimoni che hanno conoscenza dei fatti per “sentito dire”).
Le deposizioni dei parenti, affini o figli hanno lo stesso valore probatorio di quelle provenienti da terzi estranei.
È ad esempio frequente, essenzialmente ai fini dell’addebito, la testimonianza:
- dei parenti del coniuge che richiede l’addebito. La prova che la condotta di un coniuge ha determinato l’intollerabilità irreversibile della convivenza può emergere dalle loro testimonianze: i fatti che attengono all’intimità familiare infatti non possono che essere noti con più diretta conoscenza ai congiunti più prossimi;
- dei figli; ad esempio, può essere decisiva la testimonianza del figlio che conferma che la relazione extraconiugale del genitore è stata l’unica causa della crisi che ha portato alla fine del matrimonio.
Il divieto di comunicazione e diffusione dei dati personali non si applica alla narrazione dei fatti nell’ambito di una testimonianza: tale divieto infatti non può riguardare quelle attività necessarie o obbligatorie per le esigenze di difesa in giudizio quando sono rispettati i limiti della pertinenza e continenza. Il rispetto della privacy non può legittimare una violazione del diritto inviolabile di difesa che non può incontrare ostacoli o impedimenti nell’accertamento della verità.
Documenti e atti
Lettere, scritti, contratti, atti notarili e qualsiasi altro documento può entrare nel processo. Non hanno valore, nel nostro ordinamento, i cosiddetti patti prematrimoniali, quelli con cui le parti concordano in anticipo gli effetti di una eventuale separazione o divorzio. Tuttavia, è possibile che un coniuge si impegni a rimborsare l’altro, in caso di separazione, delle spese da questi sostenute per la ristrutturazione o edificazione della casa comune.
Fotografie
Le foto sono “riproduzioni meccaniche” che fanno fede solo se non contestate in giudizio dalla parte avversaria. Non basta una generica opposizione ma bisogna insinuare nel giudice il dubbio della mancanza di genuinità di tali documentazioni.
Chat, email, screenshot
I giudici ammettono oggi la prova acquisita tramite screenshot, sms, chat ed email a patto che non siano stati acquisiti con l’inganno o in violazione della privacy.
Confessione
La confessione di un coniuge, che può avvenire anche tacitamente (ossia in mancanza di contestazione di un fatto dedotto dall’avversario), è prova legale e vincola il giudice a tenerne conto senza potersi discostare più da esso.
Le indagini della polizia tributaria
Quando è in contestazione il reddito di uno dei due coniugi, l’altro può chiedere al giudice di ricostruire il suo tenore di vita sulla base delle spese da questi sostenute (affitto, viaggi, utenze, ecc.) oppure con una indagine tributaria da affidare alla finanza. In questo secondo caso, si procederà a delle vere e proprie verifiche fiscali.
L’investigatore privato
Spesso, si utilizzano detective privati per dimostrare l’infedeltà di uno dei due coniugi. Il relativo report scritto non è una prova; lo possono essere le foto se non contestate. In ultima analisi, l’investigatore potrà essere sentito come testimone dei fatti a cui ha assistito personalmente.
Cos’è l’addebito, cosa comporta e come si fa ad ottenerlo: quali le conseguenze sul mantenimento e sul risarcimento dei danni.
Forse non tutti sanno che, quando interviene la separazione, il giudice non è chiamato a stabilire chi dei due coniugi sia responsabile per la fine del matrimonio se prima non gli viene fatta una esplicita richiesta da una delle due parti. È la cosiddetta richiesta di “addebito”. Ma cos’è l’addebito e quali sono le conseguenze di una separazione con addebito? Possiamo innanzitutto dire che l’addebito è l’imputazione di responsabilità per aver determinato, con il proprio comportamento colpevole, l’intollerabilità della convivenza e aver così fatto naufragare l’unione coniugale. Insomma, subisce l’addebito chi è colpevole di aver dato causa alla separazione.
Addebito però non significa “risarcimento del danno” oppure “obbligo di pagare gli alimenti”. Altre sono le conseguenze dell’addebito. E di tanto parleremo meglio e più diffusamente nel corso del presente articolo.
Cosa significa addebito?
La parola “addebito” è il participio passato del verbo “addebitare” ossia “attribuire la colpa a qualcuno”: in questo caso si tratta della colpa per aver decretato la fine del matrimonio, l’intollerabilità della convivenza.
Intanto il giudice può pronunciare l’addebito a carico di uno dei due coniugi in quanto gli sia stata fatta esplicita richiesta con l’atto di ricorso.
Non è possibile pronunciare l’addebito nel caso di separazione di una coppia di fatto, non sposata, non esistendo, in capo ai relativi conviventi, degli specifici e cogenti obblighi di legge come invece per le coppie coniugate.
Chi subisce l’addebito è colui che viene quindi ritenuto responsabile, a seguito di una regolare causa, della violazione degli obblighi derivanti dal matrimonio per come elencati dal Codice civile (e di cui a breve parleremo).
Non necessariamente un matrimonio deve terminare con addebito. Come noto, la separazione può essere pronunciata anche su semplice richiesta di una delle due parti, per cause non imputabili alla colpa di uno dei due. Un matrimonio può infatti terminare perché la coppia non va più d’accordo, perché uno dei due non ama più l’altro (non esistendo un obbligo di restare innamorati in eterno) o perché è finita quella comunione materiale e morale che deve sempre legare i coniugi.
La separazione con addebito o senza addebito segue le stesse regole, salvo solo le conseguenze che dall’addebito derivano e di cui parleremo più in avanti nel corso di questo articolo.
Chi stabilisce l’addebito?
A pronunciare l’addebito su una separazione o un divorzio può essere solo il giudice. E pertanto, la dichiarazione di addebito presuppone una procedura di separazione di tipo giudiziale, non consensuale. Quindi, laddove i coniugi riescano a trovare un accordo tra di loro che regoli i loro rapporti personali e patrimoniali dopo l’unione coniugale, non ci potrà essere alcun addebito.
Il giudice non è tenuto a pronunciarsi sull’addebito se nessuna delle parti in causa glielo chiede. Quindi, la richiesta di addebito va fatta con l’atto introduttivo che dà origine alla causa di separazione.
L’addebito viene accertato nel corso della causa, alla luce delle prove addotte dalla parte richiedente e viene sancito con la sentenza che chiude la causa di separazione.
Quando viene dichiarato l’addebito?
L’addebito viene dichiarato solo quando vengono violati gli obblighi di legge derivanti dal matrimonio ossia:
- fedeltà;
- convivenza;
- assistenza reciproca materiale e morale;
- rispetto;
- contribuzione alle esigenze del nucleo familiare.
Tanto per fare qualche esempio pratico, l’addebito viene dichiarato a carico di chi:
- tradisce il coniuge, anche solo virtualmente (ad esempio con una relazione a distanza tramite un social o una chat, senza necessità di contatti fisici);
- va via di casa senza una giusta causa, per un apprezzabile periodo di tempo, o senza l’intenzione di volervi più tornare oppure senza indicare quando tornerà;
- fa mancare al coniuge il proprio sostegno materiale ed economico, come nel caso del marito che, pur lavorando, non provvede alle esigenze economiche della moglie disoccupata;
- umilia, perseguita, svilisce il coniuge, in pubblico o in privato;
- non svolge attività lavorativa o domestica, non contribuendo ai bisogni della famiglia in proporzione alle proprie capacità economiche e fisiche.
In secondo luogo, l’addebito può essere dichiarato solo laddove vi sia uno stretto legame di dipendenza tra la violazione di uno dei doveri del matrimonio e la crisi coniugale. Tanto per fare un esempio, intanto si può addebitare la separazione al coniuge fedifrago se è stato proprio il tradimento a determinare la fine dell’unione; ciò non può invece avvenire se il tradimento è solo l’effetto di una crisi già in atto per precedenti motivi (si pensi a una donna che tradisce un uomo che la maltratta, la picchia o che è andato via di casa).
La prova dell'addebito
Il coniuge che richiede l’addebito deve provare che l’irreversibile crisi coniugale è ricollegabile esclusivamente al comportamento dell’altro contrario ai doveri nascenti dal matrimonio. Deve inoltre dimostrare l’esistenza di un nesso di causa-effetto tra il comportamento del coniuge e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza.
La prova può essere fornita con ogni mezzo, come ad esempio testimonianze, indizi, documenti, chat, ecc. Non valgono però le dichiarazioni delle parti in causa.
Quali sono le conseguenze dell’addebito?
Erroneamente, si crede che l’addebito implichi un risarcimento del danno o l’obbligo di corrispondere gli alimenti all’ex. Non è così.
L’assegno di mantenimento non dipende dall’addebito ma dalla sproporzione di reddito tra i coniugi, quando questa non dipenda da un atteggiamento colpevole del coniuge meno abbiente. Quindi, anche in una separazione senza addebito, la moglie disoccupata potrà chiedere il mantenimento se dimostra di meritarlo (ossia di trovarsi in tale condizione non già per pigrizia ma per necessità). Dunque, un marito fedele e rispettoso dovrà versare gli alimenti all’ex coniuge.
Quanto invece al risarcimento del danno esso scatta solo quando dall’addebito consegue la lesione di un diritto costituzionale come l’onore o la salute. Si pensi al caso di un tradimento avvenuto in pubblico, con conseguente danno alla reputazione del coniuge tradito; o al marito che picchi la moglie procurandole delle lesioni fisiche e/o un danno psicologico.
Ma allora quali sono le conseguenze dell’addebito? Il coniuge che subisce l’addebito:
- non può ottenere l’assegno di mantenimento, laddove ne abbia diritto, anche se le proprie condizioni economiche non gli consentano di mantenersi da solo;
- non ha diritto alla quota di eredità dell’ex coniuge qualora questi muoia prima del divorzio.
A quest’ultimo proposito è bene ricordare che, con la separazione, i coniugi continuano ad essere l’uno erede dell’altro (salvo appunto per il coniuge che abbia subìto l’addebito), mentre ogni diritto ereditario cessa sempre con il divorzio (indipendentemente dall’addebito).
Come detto, nel caso di evidenti lesioni a diritti costituzionali, l’addebito implica anche un risarcimento del danno che può essere richiesto nello stesso giudizio di separazione. Si tratta tuttavia dell’eccezione, che ricorre in casi particolarmente gravi.
Che succede se entrambi i coniugi sono colpevoli?
Se entrambi i coniugi hanno contribuito a rendere intollerabile la convivenza con comportamenti contestuali e non causalmente connessi, il giudice può addebitare la separazione a entrambi. È il cosiddetto doppio addebito.
In tal caso, il giudice valuta i comportamenti di entrambi i coniugi come gravemente contrari ai doveri imposti dal matrimonio e astrattamente idonei a produrre la rottura del rapporto coniugale.
Ad esempio è stato pronunciato il doppio addebito in un caso in cui:
- il marito ha tenuto una condotta violenta che comporta l’addebito, ma l’addebito è stato imputato anche alla moglie in quanto è stata provata una sua relazione extraconiugale;
- la moglie ha accusato il marito, in modo reiterato ed ossessivo, di adulterio e rapporti sessuali con altre persone di famiglia comunicando le accuse a parenti, amici, conoscenti e ai dipendenti del marito;
- moglie e marito si sono traditi reciprocamente e contemporaneamente (diverso sarebbe se un tradimento è successivo all’altro e determinato da ripicca: in tal caso, l’addebito viene pronunciato in capo al primo coniuge che ha commesso tale comportamento).
In caso di doppio addebito non può essere determinato alcun contributo per il mantenimento del coniuge economicamente più debole o meno colpevole.
Il giudice non può effettuare una graduazione fra le diverse responsabilità né fondare il riconoscimento dell’assegno sulla minore rilevanza che il comportamento di uno dei due ha avuto sulla situazione di intollerabilità della convivenza.
In sintesi, possiamo così concludere. Quando l’intollerabilità della convivenza o il pregiudizio per la prole sono la conseguenza diretta della violazione da parte di un coniuge dei doveri derivanti dal matrimonio, l’altro coniuge può chiedere la separazione con addebito.
La richiesta deve essere specifica e supportata da prove sulla violazione dei doveri matrimoniali.
Se ne ricorrono le circostanze, il giudice, pronunciando la separazione, dichiara a quale dei coniugi essa sia addebitabile.
Le ragioni che fondano la richiesta di addebito possono giustificare la richiesta di risarcimento dei danni presentata in un giudizio di separazione.
Come affermato dalle Sezioni Unite, l'assegno divorzile svolge una funzione perequativa e assistenziale, per cui se l'ex moglie è impossibilitata a trovare un lavoro e nonostante la convivenza ha difficoltà, conserva l'assegno
Assegno divorzile all'ex che, anche se convive, non naviga nell'oro
L'assegno di divorzio, come precisato dalla Cassazione a Sezioni Unite del 2018, ha funzione compensativa, assistenziale e perequativa.
Fatta questa premessa, la ex moglie che, pur convivendo, non ha i mezzi adeguati per mantenersi ed è impossibilitata a procurarseli per ragioni oggettive perché invalida, conserva il diritto all'assegno di divorzio. La convivenza more uxorio infatti non determina in automatico il venire meno della misura. Questo in sintesi quanto emerge dalla Cassazione n. 15241/2022.
La vicenda processuale
In sede di revisione delle condizioni di divorzio il tribunale revoca l'assegno divorzile che era stato disposto in favore della ex moglie. Questa però ricorre in appello, che respinge l'impugnazione in quanto in giudizio è stata accertata la nuova costituzione di una famiglia di fatto e di convivenza more uxorio.
Trascurata la situazione economica dell'ex moglie
- Nel ricorrere in Cassazione la donna, con il primo motivo, evidenza il mancato accertamento da parte della Corte della compatibilità dei fatti nuovi allegati dall'ex marito con il quadro del suo rapporto amicale accertato inizialmente, che non presenta le caratteristiche tipiche dalla famiglia di fatto.
- Con il terzo evidenzia come la corte di appello abbia erroneamente assimilato il nuovo rapporto a una famiglia di fatto nonostante l'assenza della condizione di un progetto di vita con il nuovo compagno. La mera coabitazione con un'altra persona non è sufficiente ai fini della revoca dell'assegno divorzile, in assenza di elementi dai quali è possibile dedurre la formazione di una vera e propria famiglia di fatto.
- Con il quarto inoltre rileva l'omessa considerazione della propria condizione di invalidità e inabilità al lavoro, ricordando al riguardo come la SU della Cassazione n. 18287/2018 abbiano sottolineato anche la funzione solidaristica dell'assegno divorzile.
L'ex inabile e priva di mezzi, anche se convivente, conserva l'assegno
La Cassazione, nel valutare i diversi motivi di doglianza della donna, ritiene fondato solo il quarto motivo, inammissibile invece il primo e infondato il terzo.
Il primo è inammissibile in quanto la Corte di Appello ha dato atto del fatto che l'iniziale amicizia della donna si è trasformata nel tempo in una stabile convivenza more uxorio, sulla base degli elementi probatori a disposizione del giudice e che lo stesso è libero di valutare e scegliere anche in relazione alla loro diversa attendibilità.
Infondato il terzo motivo perché la Corte ha concluso per il nuovo e stabile rapporto di convivenza della donna sulla base degli elementi probatori dai quali è emersa la comune dimora, l'utilizzo della stessa vettura, la suddivisione delle incombenze domestiche, la condivisione della vita di relazione e il rapporto della coppia con i rispettivi membri familiari. Il soggetto obbligato alla corresponsione dell'assegno inoltre, precisa la Cassazione, "può limitarsi a provare l'altrui costituzione di una nuova formazione sociale familiare stabile, non essendo onerato anche dal fornire anche la prova (assai complessa da reperire per chi è estraneo alla nuova formazione familiare) di una effettiva contribuzione, di ciascuno dei conviventi, al menage familiare, perché la stessa può presumersi, dovendo ricondursi e fondarsi sull'esistenza di obblighi di assistenza reciproci."
Fondato invece il quarto motivo in quanto in effetti la Corte di merito, nel disporre la revoca dell'assegno, ha solo tenuto conto della nuova convivenza, così contravvenendo a quanto sancito dalle SU in merito alla funzione dell'assegno divorzile, avente natura assistenziale, ma anche perequativa e compensativa. Per cui se l'ex coniuge, che instaura una nuova convivenza è comunque privo di mezzi adeguati e, come nel caso di specie, è impossibilitato a procurarseli, il diritto all'assegno divorzile, in presenza degli altri elementi indicati dalle SU, si conserva.
Se un genitore mette un figlio contro l’altro genitore e ostacola le visite perde l’affidamento, decade dalla responsabilità genitoriale e deve risarcire i danni.
Molte coppie separate o divorziate non si rendono conto che il diritto alla bigenitorialità è stabilito in favore dei figli, non dei genitori. Purtroppo, molte madri e tanti padri non sono collaborativi e si oppongono, con vari pretesti, alle visite e agli incontri tra i figli e l’altro genitore che, dopo la separazione o il divorzio, è andato a vivere altrove. Nei casi più gravi, la situazione degenera e c’è chi, approfittando della convivenza quotidiana, cerca di mettere il figlio contro il genitore lontano, tentando di escluderlo definitivamente dai rapporti affettivi.
Così i bambini e i ragazzi coinvolti in queste penose situazioni subiscono continui martellamenti psicologici; diventano “figli contesi” e possono riportare gravi traumi psicologici, con ripercussioni destinate a proseguire anche in età adulta. Ma se una madre ostacola il rapporto tra padre e figlio, cosa rischia?
La giurisprudenza è piuttosto severa in queste situazioni: sono numerose le pronunce che hanno revocato l’affidamento condiviso dei figli e, talvolta, hanno anche dichiarato la decadenza dalla responsabilità genitoriale nei confronti del genitore che ha ostacolato i rapporti e le frequentazioni con l’altro genitore. Inoltre, alle parti lese – che in questi casi sono sia il genitore escluso sia il bambino al quale è stato precluso il rapporto affettivo con lui – viene riconosciuto il risarcimento del danno.
Diritto alla bigenitorialità e affidamento dei figli dopo la separazione dei genitori
I figli hanno il diritto di mantenere un rapporto sereno e costante con i propri genitori: è il loro diritto alla bigenitorialità. Dopo la separazione coniugale, questa esigenza è ancor più accentuata, perché la fine del legame di coppia provoca inevitabilmente un trauma alla prole.
Nelle decisioni sull’affidamento dei figli, i giudici tengono prioritariamente conto della necessità del bambino di sviluppare la propria personalità con l’apporto e il contributo affettivo di entrambi i genitori, che dunque devono continuare a partecipare alla vita dei figli durante la loro crescita. L’affidamento può essere condiviso o esclusivo; in ogni caso, deve garantire la possibilità di frequentazione dei figli minori con entrambi i genitori.
Di regola, all’esito della separazione e del divorzio si sceglie l’affidamento condiviso, in modo da garantire al figlio una crescita equilibrata con l’apporto sia del padre sia della madre. Con l’affidamento condiviso la responsabilità genitoriale viene esercitata da entrambi i genitori. Inoltre, il giudice decide il luogo in cui i figli minori continueranno a vivere; di solito, essi – fermo restando l’affido congiunto – vengono «collocati» presso la madre, alla quale viene assegnata la casa familiare, per evitare loro l’ulteriore trauma dello spostamento.
Diritto di visita: che succede se viene ostacolato?
In caso di disaccordo tra i genitori, il giudice che pronuncia la separazione o il divorzio stabilisce anche il diritto di visita in favore del genitore non collocatario (che solitamente è il padre), disponendo le modalità, i periodi e gli orari di frequentazione.
A volte, però, accade che le madri ostacolino l’esercizio del diritto di visita, rendendo così più difficoltoso il rapporto tra il figlio e l’ex coniuge, che è anche il padre del bambino. Le condotte attraverso cui si manifesta questo comportamento sono svariate, così come i motivi che le determinano (astio, risentimento, vendetta, ecc.). I figli diventano così strumentalizzati e manipolati.
A questo punto, il genitore escluso può rivolgersi al tribunale che ha disposto la separazione o il divorzio, lamentando la situazione, esponendo dettagliatamente i fatti accaduti e chiedendo l’adozione dei provvedimenti opportuni per ristabilire i propri diritti. Il giudice ha un ventaglio di opzioni, elencate dall’art. 709 ter del Codice di procedura civile, che comprende:
- l’ammonimento del genitore inadempiente;
- la revoca dell’affidamento condiviso, con il conseguente affidamento esclusivo del figlio ad un solo genitore; questo avviene quando l’altro genitore è apparso inadeguato a svolgere i suoi compiti educativi, o quando la sua condotta è tale da costituire serio pregiudizio per la crescita serena ed equilibrata del minore;
- la decadenza dalla responsabilità genitoriale nei confronti del genitore colpevole di aver ostacolato i rapporti del figlio con l’altro genitore; è il provvedimento estremo, adottato quando la condotta ostruzionistica risulta particolarmente grave e non sono praticabili altri rimedi per ripristinare il rapporto tra il figlio ed il genitore escluso;
- il risarcimento dei danni arrecati al figlio ed al genitore con il quale la condotta ostativa dell’altro aveva precluso i rapporti;
- una sanzione amministrativa pecuniaria (da un minimo di 75 euro ad un massimo di 5.000 euro, in base alla gravità della violazione).
Madre ostacola i rapporti del figlio col padre: una vicenda concreta
Applicando i criteri che abbiamo descritto, una recentissima sentenza della Corte d’Appello di Roma [1] ha dichiarato la perdita della responsabilità genitoriale a carico di una madre divorziata che aveva ostacolato per anni i rapporti del figlio con il padre, arrivando ad inventare malattie inesistenti pur di tenere il minore accanto a sé (questo comportamento è chiamato scientificamente «sindrome di Münchhausen»).
La donna aveva così cercato di instaurare una «pericolosa simbiosi» costruendo un «rapporto patologico» con il ragazzo, un adolescente che aveva raggiunto i 17 anni di età ed era cresciuto isolato e con gravi problemi psicologici. Tutto ciò è risultato «gravemente controproducente per il corretto sviluppo psico-fisico del minore». Perciò, i giudici capitolini hanno anche disposto il risarcimento dei danni (15mila euro al padre e 25mila euro al figlio), ed hanno disposto la trasmissione degli atti alla procura della Repubblica per valutare la possibilità di adottare una misura di protezione per il figlio.
L’assegno divorzile deve compensare il sacrificio economico compiuto dalla donna che ha rinunciato al lavoro a tempo pieno per dedicarsi di più alla famiglia.
Immaginiamo una moglie che quando si è sposata aveva un posto di lavoro a tempo pieno, ma poi, dopo il matrimonio, ha optato per il part time. Ha compiuto questa scelta d’accordo col marito, per dedicarsi di più alla famiglia. In seguito, la coppia divorzia e la donna chiede al marito di versarle l’assegno di mantenimento. Sostiene di essersi dedicata alla casa, rinunciando al lavoro a tempo pieno, che le garantiva uno stipendio maggiore di quello che ha percepito con il part-time: perciò, ha avuto ripercussioni economiche negative e chiede che adesso vengano compensate.
Il problema del mantenimento della moglie con lavoro part time si pone frequentemente in questi casi, e può essere visto anche dal lato opposto, cioè considerando che la donna, anche dopo la separazione e il divorzio, mantiene comunque un’occupazione lavorativa remunerata: perciò, l’ex marito potrebbe sostenere che l’ex moglie ha il suo reddito per vivere e non deve essere mantenuta.
Per risolvere questi problemi occorre, innanzitutto, capire come funziona l’assegno divorzile e quando viene riconosciuto: se si tratta o no di una sorta di “buonuscita” per gli anni “spesi” insieme o se ci sono altre condizioni correttive, per evitare che l’emolumento diventi una rendita parassitaria per vivere a carico dell’ex. Poi, bisogna esaminare quali sono le applicazioni pratiche della giurisprudenza, cioè come decidono i giudici in questi casi e quali elementi mettono sul piatto della bilancia.
Mantenimento dell’ex coniuge: condizioni
La condizione essenziale in base alla quale viene attribuito il mantenimento dell’ex coniuge dopo la separazione e il divorzio è l’esistenza di uno squilibrio economico tra le parti: questo indice si misura in base alla disparità dei rispettivi redditi e patrimoni. L’assegno divorzile serve essenzialmente per colmare questa sproporzione.
La funzione essenziale del mantenimento, nella fase di separazione coniugale, è quella di garantire al beneficiario (o alla beneficiaria) il tenore di vita pregresso, quello di cui godeva durante il matrimonio. Con il divorzio, invece, il matrimonio finisce definitivamente, e l’assegno serve a fornire l’aiuto economico necessario all’ex coniuge che non è in grado di mantenersi da sé. Ecco, allora, che il lavoro svolto dalla ex moglie può diventare un elemento decisivo, in quanto fornisce un reddito, che è anche tendenzialmente stabile, quando si tratta di un’occupazione a tempo indeterminato.
Mantenimento ex coniuge che lavora
La legge sul divorzio si limita a dire che: «Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive».
Questa formulazione lascia al giudice un ampio margine di discrezionalità nel decidere la misura dell’assegno divorzile. Il criterio della disparità fra i redditi dei due ex coniugi viene contemperato con l’incapacità di uno dei due di mantenersi autonomamente. Questa incapacità, però, deve essere oggettiva ed incolpevole; perciò l’assegno non viene riconosciuto a chi potrebbe lavorare e non lo fa. Viceversa, se la donna è in età avanzata, o soffre di patologie invalidanti, o è priva di istruzione e qualificazioni professionali, l’inserimento nel mondo del lavoro diventa impossibile e l’assegno le spetta.
Assegno divorzile alla ex moglie che lavora part-time
Oltre ai criteri generali che abbiamo esaminato e che costituiscono le condizioni per l’attribuzione dell’assegno divorzile, la giurisprudenza più recente aggiunge il contributo che l’ex coniuge aveva dato al ménage familiare. Sono frequentissimi i casi di donne che si sono sacrificate per la carriera del marito rinunciando, così, alla propria attività lavorativa o riducendola sensibilmente per dedicarsi alla casa e alla crescita dei figli.
In questi casi, l’ex moglie ha diritto di vedersi riconosciuta questa forma di partecipazione all’andamento della famiglia, specialmente se il matrimonio ha avuto una lunga durata e il sacrificio si è protratto per parecchi anni, al termine dei quali la donna divorziata, ormai, non ha più l’età e le energie per tentare un reinserimento lavorativo pieno (abbiamo parlato di questi aspetti nell’articolo “Mantenimento ex moglie che ha rinunciato alla carriera“).
Considerando le cose da questo punto di vista, ecco che il contributo fornito dalla donna alla famiglia nel corso degli anni diventa “monetizzabile” al momento del divorzio, in quanto è suscettibile di valutazione economica. E infatti, secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione, l’assegno divorzile non ha soltanto una funzione assistenziale, ma anche una finalità «perequativa e compensativa» che tende ad eliminare, o almeno ad attenuare, gli squilibri economici esistenti tra gli ex coniugi e valorizza i comportamenti tenuti in ambito familiare, compresa l’attività di casalinga.
In questa prospettiva, una recentissima ordinanza della Suprema Corte ha riconosciuto alla ex moglie l’assegno divorzile, tenendo contro che ella durante gli anni di matrimonio aveva «apportato un rilevante contributo economico alla famiglia attraverso la conversione del rapporto di lavoro in part-time, d’accordo col marito». Prima questa signora lavorava a tempo pieno, come nell’esempio che abbiamo fatto all’inizio dell’articolo. In definitiva, quando si ravvisano tali situazioni anche con il lavoro part-time si prende il mantenimento.
Arriva dal tribunale di Genova, un affidamento condiviso pressoché paritetico tra i genitori di una bambina in tenerissima età.
Affidamento "quasi perfetto": la decisione del Tribunale di Genova
L'affidamento condiviso, secondo la legge n. 54/2006 è la regola, ma raramente viene applicato in modo "quasi perfetto" come ha fatto il Tribunale di Genova con il decreto del 29 aprile 2022. Pienamente soddisfatto della decisione il difensore del padre, l'Avv. Simone Marchetti, che evidenzia la vittoria della bambina in questo caso, che potrà così trascorrere lo stesso tempo con la mamma e il papà. La tenerissima età della bambina (appena tre anni) e la conflittualità tra i genitori, come nel caso di specie, non sono da ostacolo all'affidamento condiviso, perché l'equilibrio psicologico ed emotivo della bambina non sono messi a rischio, se così non fosse, tale forma di affidamento sarebbe solo residuale.
La vicenda
Una madre si rivolge al Tribunale di Genova per ottenere la regolamentazione del regime di affidamento della figlia minore, del regime di collocamento della stessa, delle modalità di frequentazione dei genitori e dei collegati aspetti economici.
La donna dichiara di aver avuto una relazione con il resistente, da cui è nata una bambina e che dopo il ritorno della stessa a Genova, dove vive la sua famiglia, sono insorti forti contrasti per la gestione della figlia e che l'ex compagno non ha più versato nulla per il mantenimento.
La donna richiede quindi un contributo per la bambina, oltre al 50% delle spese straordinarie e regole precise per quanto riguarda le modalità di frequentazione della stessa.
Il resistente contesta in parte la versione dei fatti narrata dalla ex compagna, fa presente di aver preso un appartamento a Genova per frequentare la figlia, potendo gestire il suo lavoro anche online e che lo stesso ha sempre trascorso molto tempo con la bambina.
Chiede che nel rispetto della bigenitorialità gli sia consentito di continuare a frequentare la bambina anche tramite il riconoscimento di un affidamento condiviso con tempi paritetici e mantenimento diretto da parte dei genitori.
Affido condiviso con tempi quasi paritetici
L'adito Tribunale di Genova accoglie in sostanza la richiesta del padre, ricordando che dopo la Legge n. 54/2006 l'affidamento condiviso rappresenta la regola.
Nel caso di specie, dispone infatti un affidamento "quasi perfetto" che prevede in sintesi il diritto della bambina di trascorrere, mensilmente, 16 notti con la madre e 12 con il padre. Feste civili e religiose seguiranno il criterio dell'alternanza annuale, mentre nel periodo estivo la bambina potrà trascorrere 15 giorni consecutivi solo con la mamma e 15 solo con il papà. In presenza di problemi lavorativi che dovessero alterare il regime di visita è previsto che il genitore interessato avverta l'altro con un congruo anticipo così da consentirgli di organizzarsi.
La Cassazione, del resto, ha chiarito che la conflittualità non impedisce l'affidamento condiviso, altrimenti tale regime avrebbe un'applicazione residuale, mentre il minore ha diritto a trascorrere lo stesso tempo con mamma e papa in modo continuativo ed equilibrato.
La bambina quindi va affidata in modalità condivisa ad entrambi i genitori e, appurate le condizioni economiche di entrambi, dispone che il padre versi alla madre 250 euro mensili per il contributo al mantenimento della bambina.
Nell'affidamento condiviso vincono i figli
L'avvocato Simone Marchetti, difensore del padre, commenta positivamente e in questi termini la decisione del Tribunale del capoluogo ligure: "Si tratta di un provvedimento di assoluto buon senso e che va nella giusta direzione, intrapresa dalla giurisprudenza negli ultimi mesi. Il cosiddetto affido condiviso è stato introdotto nel nostro ordinamento già nel 2006 e, pertanto, quindici anni orsono. In questo lungo periodo, tuttavia, la legge, assolutamente condivisibile nella sua ratio ispiratrice, si è però scontrata con la prassi, diffusasi nelle aule di giustizia, dell'affido condiviso con collocamento prevalente (quasi sempre a favore della madre) che, nella sostanza, non diverge granchè dal vecchio affido esclusivo. Con il decreto di cui parliamo, invece, il Tribunale di Genova si è dimostrato al passo con i tempi ed ha ritenuto corretto, nell'interesse della minore, il collocamento sostanzialmente paritetico tra i genitori. Non pare superfluo evidenziare che, nel caso di specie, non ha vinto il padre (che rappresento) ed ha perso la madre. Nel diritto di famiglia e minorile la prospettiva è diversa: in questa specifica situazione ha vinto, per così dire, la bambina che aveva ed ha diritto di stare sia con la mamma sia con il papà".
Stop all'assegno divorzile se l'ex ha una relazione stabile, anche senza coabitazione
La nuova convivenza dell'ex coniuge, beneficiario dell'assegno di divorzio, rileva ai fini della revoca della misura se tra la nuova coppia esiste un legame affettivo stabile e duraturo, anche senza coabitazione.
La convivenza more uxorio non esige la coabitazione
Sul rilievo della nuova convivenza dell'ex coniuge beneficiario dell'assegno divorzile ai fini della revoca dello stesso arriva una Cassazione, che farà sicuramente discutere. Vine rimesso in discussione il concetto di convivenza che per gli Ermellini non va confuso con la coabitazione. Ai fini della convivenza more uxorio infatti non occorre che la coppia coabiti, essendo sufficiente che tra gli stessi sia presente un rapporto di tipo affettivo e che gli stessi si diano reciproco supporto affettivo e materiale spontaneamente.
Nel caso di specie in effetti la Corte di Appello, nel rigettare la richiesta di revoca dell'assegno divorzile ha trascurato il fatto che il nuovo compagno è considerato dalla ex moglie come suo fidanzato, che lo stesso si rechi abitualmente a casa della donna e che paghi le utenze dell'energia a lui intestate. Valuti meglio la Corte in sede di rinvio tutti gli elementi probatori prima di escludere la convivenza di fatto rilevante ai fini della revoca dell'assegno di divorzio. Questo quanto emerge dall'ordinanza della Cassazione n. 14151/2022.
La vicenda processuale
Un ex marito chiede la revoca dell'assegno divorzile disposto in favore della ex moglie dal Tribunale che ha dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio.
La domanda però viene respinta perché non risulta provata la nuova convivenza della ex moglie e la dedotta disoccupazione del richiedente. L'uomo appella la decisione perché ritiene di aver provato il suo licenziamento e la nuova convivenza della ex moglie, chiedendo di ammettere testimoni sul punto.
La Corte di Appello conferma però la decisione di primo grado anche perché il licenziamento non rileva ai fini del modesto importo dell'assegno divorzile. Per quanto riguarda invece la nuova convivenza della ex moglie la Corte precisa che la stessa avrebbe rilievo ai fini della revoca se rappresentasse una situazione capace d'incidere sulla situazione reddituale della beneficiaria.
Il nuovo compagno con coabita ma è convivente
Nel ricorrere in Cassazione contro la sentenza della Corte di Appello l'ex marito fa presente che la sola prova della instaurazione di una convivenza stabile da parte dell'obbligato a corrispondere l'assegno sia sufficiente ai fini della domanda di revoca dell'assegno, dovendo piuttosto la beneficiaria, in questo caso, dimostrare che la nuova convivenza non è tale da rappresentare la formazione di una nuova famiglia.
Fa poi presente che in sede di merito, dalla testimonianza della figlia, è emerso che in realtà la sua ex moglie ha una relazione stabile, che il nuovo compagno in diverse occasioni è stato visto a casa della madre, tanto da ritenere la sua presenza nella vita della donna non occasionale. Non solo, l'utenza dell'energia elettrica dell'abitazione della donna è intestata al nuovo compagno, giustificata per motivi di comodo dovuti a una riparazione. Circostanza che però la Corte di Appello non ha ritenuto erroneamente capace di dimostrare la stabile convivenza dei due soggetti.
Nel ricorso quindi l'uomo lamenta la violazione di legge per quanto riguarda il significato di "convivenza", la mancata valutazione della confessione della ex moglie, la violazione del principio di necessità di valutare globalmente gli indizi e infine l'omesso esame di un fatto decisivo, rappresentato dalla confessione stragiudiziale di un terzo.
La convivenza va distinta dalla coabitazione
Il ricorso, con il quale vengono sollevati complessivamente 5 motivi, viene accolto perché gli stessi, esaminati congiuntamente, sono fondati.
Per la Cassazione occorre distinguere prima di tutto i concetti di coabitazione e convivenza more uxorio.
Dopo avere richiamato normativa e giurisprudenza relative al significato dei due termini, la Corte giunge alla conclusione che la convivenza giuridicamente è definita in sostanza come un legame tra due soggetti maggiorenni, uniti da un rapporto stabile di natura affettiva e di reciproca assistenza morale e materiale spontanea e reciproca. Del resto la legge stessa prevede che le coppie conviventi possano, non debbano, indicare un a residenza comune. Entrambi infatti hanno la possibilità di conservare due dimore distinte. La coabitazione di conseguenza ha valore indiziario in relazione alla prova dell'esistenza di una convivenza di fatto.
Superficiale a atomistica risulta inoltre la valutazione degli elementi istruttori da parte della Corte di Appello. Dall'istruttoria è infatti emerso che la donna considera il nuovo compagno come suo fidanzato e che lo stesso è presente in modo stabile nella vita della donna.
Il decreto va pertanto cassato e rinviato alla Corte di Appello in diversa composizione, che dovrà attenersi al seguente principio di diritto: "in materia di revoca dell'assegno divorzile disposto per la instaurazione da parte dell'ex coniuge beneficiario di una convivenza more uxorio con un terzo, il giudice deve procedere al relativo accertamento tenendo conto, quale elemento indiziario, della eventuale coabitazione di essi, in ogni caso valutando non atomisticamente, ma nel loro complesso l'insieme dei fatti secondari noti, acquisiti al giudizio nei modi ammessi dalla legge processuale, nonché gli ulteriori eventuali argomenti di prova, rilevanti per il giudizio inferenziale in ordine alla sussistenza della detta convivenza, intesa quale legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale i conviventi si siano spontaneamente e volontariamente assunti reciproci impegni di assistenza morale e materiale."
Infedeltà: effetti sul mantenimento e sul risarcimento a carico del coniuge traditore.
Di solito, chi rompe paga. Ma se a rompersi è il matrimonio, vale la stessa regola? Se una coppia, dopo qualche anno di matrimonio, dovesse separarsi perché uno dei due scopre che l’altro lo tradisce e, a seguito di ciò, il coniuge tradito dovesse cadere in uno stato di profonda depressione, perdere il lavoro, rinunciare alla propria vita sociale, magari pagare una lauta parcella a uno psicanalista per uscire fuori dalla situazione che lo opprime, potrebbe chiedere il risarcimento all’ex? In altri termini, chi tradisce deve pagare i danni? La questione è finita non poche volte sul banco della Cassazione. Ecco quali sono le risposte fornite dai giudici a tale situazione.
Il tradimento comporta responsabilità?
La fedeltà è un obbligo solo per le coppie sposate e per quelle unite in unione civile. Giammai, in una coppia di conviventi, un partner potrebbe accusare l’altro di infedeltà.
Ma anche all’interno del matrimonio, le conseguenze dell’infedeltà sono ridotte al minimo. Più in particolare, chi tradisce non può più chiedere l’assegno di mantenimento all’altro, né può rivendicare diritti ereditari qualora l’ex dovesse morire prima del divorzio (con il divorzio, invece, indipendentemente dal tradimento, si perde in ogni caso la qualità di erede legittimario).
Tutto ciò viene sintetizzato in un’unica frase: l’infedeltà comporta l’addebito, ossia l’imputazione di responsabilità per la fine del matrimonio. Una responsabilità di natura civile, come appena visto, e non già penale. In buona sostanza, tradire non è più – come un tempo lo era solo per la donna – reato.
Quando il tradimento è lecito?
Abbiamo detto che il tradimento implica l’addebito, ossia la perdita del diritto al mantenimento e all’eredità. Tale conseguenza può discendere però solo da un’eventuale causa di separazione (non deve quindi esserci una procedura di separazione consensuale) e da un’esplicita richiesta presentata dal coniuge tradito al giudice. Questi deve inoltre fornire due importanti prove: innanzitutto, deve dimostrare l’altrui infedeltà e, in secondo luogo, che proprio a causa di questa la convivenza è divenuta impossibile. In buona sostanza, il coniuge tradito deve provare che la fine del matrimonio è derivata unicamente dalla scoperta dell’adulterio e non da precedenti e differenti cause.
Ragion per cui, in una coppia già alla deriva, dove i coniugi litigano spesso, non vanno d’accordo, o magari non convivono più, oppure hanno già deciso di separarsi, il tradimento non implica l’addebito: esso infatti non è la causa della fine del matrimonio ma l’effetto di una causa pregressa.
Il tradimento non è un illecito quindi se commesso dalla moglie che è stata abbandonata dal marito o che da questi viene continuamente vessata e umiliata; oppure da un marito che ha da poco scoperto il precedente tradimento della moglie e non sia riuscito a perdonarla.
Chi tradisce deve risarcire?
Chi viene tradito ha dunque tutto l’interesse a dimostrare l’altrui infedeltà, non dovendo così versare alcun mantenimento all’ex.
Tuttavia, oltre all’addebito – ossia all’impossibilità di chiedere il mantenimento e di rivendicare la quota dell’eredità dell’ex – il tradimento non ha ulteriori effetti. Dunque, chi tradisce non deve pagare il risarcimento all’ex, neanche se questi dimostra di aver sofferto danni morali (la depressione) o economici (ad esempio le spese per il matrimonio o quelle sostenute per la gestione familiare; la perdita del lavoro conseguente a uno stato di angoscia).
C’è una sola ipotesi – secondo la Cassazione – in cui il tradimento implica il diritto a ottenere il risarcimento: quando esso si risolve in una lesione all’onore e alla reputazione dell’ex. Il che avviene tutte le volte in cui l’infedeltà si consuma in pubblico, alla luce del sole, dinanzi a tutti: quando cioè il coniuge fedifrago non fa nulla per nascondere la propria relazione adulterina.
In tale ipotesi, poiché il fatto di “avere le corna” è percepito come un disvalore sociale e una fonte di vergogna, la vittima di tale comportamento può chiedere i danni morali. A nessuno piace sapere che gli amici o i colleghi di lavoro gli parlano alle spalle, sapendo come la sua relazione sia naufragata. Ecco, in questi casi, vi è certo una lesione alla propria reputazione che va risarcita.
Chi tradisce deve pagare il mantenimento?
Spesso, si cade in errore e si ritiene che chi tradisce debba pagare gli alimenti all’ex. Non è corretto. Il versamento dell’assegno mensile di mantenimento non è una conseguenza del tradimento o comunque una sanzione per la violazione degli obblighi matrimoniali. Esso scaturisce unicamente dalla disparità di reddito tra i due coniugi, disparità non dovuta a una colpa di chi chiede l’assegno.
Pertanto, se i due coniugi hanno un reddito simile, il coniuge traditore non dovrà versare il mantenimento all’ex, nonostante la sua condotta colpevole. Se uno dei due coniugi ha un reddito superiore all’ex, questi dovrà versargli il mantenimento anche se è sempre stato fedele. Se il coniuge traditore ha un reddito più basso dell’ex non dovrà versargli il mantenimento.
L’unica ipotesi quindi in cui il tradimento determina effetti sugli alimenti è quando a tradire è il coniuge con il reddito più basso: questi non potrà rivendicare il mantenimento per sé.
Quando un figlio raggiunge l’indipendenza economica e cosa si intende con questo termine?
Dopo la laurea, il figlio perde gli alimenti? Quando si può smettere di dare il mantenimento ai figli? La risposta è stata ampiamente fornita dalla giurisprudenza. Secondo i giudici, il giovane perde il diritto al mantenimento sia quando raggiunge una sua indipendenza economica, sia quando, superata una certa età, sia ancora disoccupato. E questa età è rapportata al tipo di percorso di studi che ha prescelto. Chi quindi ha deciso di non studiare, dovrà subito darsi da fare per cercare un impiego o una propria autonomia; chi invece ha intrapreso un corso universitario, che magari richiede anche una successiva specializzazione, avrà più tempo a disposizione. Ma non si può ritenere che, a trent’anni suonati, si debba stare ancora a carico della madre e del padre.
Ecco allora alcuni importanti chiarimenti in materia di mantenimento ai figli.
Fino a quando i genitori devono tenere in casa i figli?
I genitori, benché separati, devono garantire ai figli non solo il vitto e l’alloggio, ma anche lo stesso tenore di vita di cui essi stessi godono. Sicché, devono dar loro la possibilità di proseguire gli studi (anche universitari e post universitari); devono far fronte alle esigenze relazionali e ludiche tipiche dei ragazzi (gite scolastiche, mezzi di trasporto, computer, centri sportivi, ecc.).
Quindi, un genitore non può mandare via di casa il figlio fino a quando questi è incapace di provvedere a se stesso.
Fino a quando i genitori devono mantenere i figli?
Anche se separati, i genitori – ciascuno in proporzione alle proprie capacità economiche – devono mantenere i figli sino a quando questi non raggiungono l’indipendenza economica o, benché disoccupati, non hanno un’età tale da ritenere che l’assenza di lavoro sia dovuta a pigrizia.
Vediamo singolarmente queste due ipotesi.
Quanto all’indipendenza economica, questa si raggiunge con un reddito certo, ma non necessariamente elevato o in linea con le ambizioni del giovane. Quindi, se il figlio inizia a guadagnare da attività parallele rispetto a quello che è il proprio “sogno” perde il mantenimento.
Non si deve trattare ovviamente di un contratto stagionale o di uno a tempo determinato per pochi mesi, senza possibilità di rinnovi. Ma anche un part-time o un assegno di ricerca potrebbe essere sufficiente a perdere il mantenimento. Non basta invece un contratto di formazione professionale.
Una volta raggiunta l’indipendenza economica, il figlio perde per sempre il mantenimento anche se poi perde il lavoro dopo poco.
Quanto invece all’età, il ragazzo deve fare in modo di rendersi indipendente dai genitori in due modi: o formandosi (e quindi studiando con profitto) oppure cercando un lavoro. Se il giovane decide di non proseguire gli studi, dovrà subito mettersi alla ricerca di un’occupazione. Se invece opta per la laurea, dovrà superare gli esami e far in modo di non perdere tempo nei corridoi dell’ateneo. Una volta laureato avrà l’obbligo di cercare lavoro.
Superati i 30 anni, al padre non è neanche richiesto dimostrare l’inerzia del figlio nella ricerca del lavoro: dopo una certa età, si presume lo stato di disoccupazione colpevole.
Dopo la laurea il figlio perde il mantenimento?
Non spetta l’assegno di mantenimento al trentenne laureato che deve trovarsi un lavoro qualsiasi. E, oltre a ciò, la madre perde il diritto di abitazione nella casa dell’ex.
Finito il percorso di studi, è l’autoresponsabilità a imporre al figlio maggiorenne di cercare un’occupazione anche fuori dal campo prescelto.
A trent’anni, il figlio ormai laureato deve definitivamente emanciparsi dai genitori, iniziando a trovarsi comunque un lavoro, quindi anche al di fuori del campo di studi prescelto, se il mercato non offre altre opportunità.
Il figlio che chiede l’assegno – o per lui il genitore convivente – deve dimostrare che la preparazione professionale o tecnica è stata perseguita con ogni possibile cura e che altrettanto impegno è stato profuso nella ricerca di un’occupazione. In linea con la giurisprudenza della Corte di giustizia europea, la Cassazione ormai chiede che il giovane ridimensioni, se del caso, le proprie aspirazioni senza aspettare un’opportunità consona alle proprie ambizioni: deve dunque fronteggiare il mercato del lavoro, vi siano o no occasioni nel settore del campo di studi prescelto. Insomma: giunto ai trent’anni deve trovare una qualsiasi attività che produca reddito perché non è possibile che sia ancora mantenuto dalla famiglia.
Cosa si intende per atti osceni, per luogo pubblico e per luoghi abitualmente frequentati da minori.
Gli atti osceni in luogo pubblico costituivano, un tempo, reato. Nel 2016, tale comportamento è stato depenalizzato. Oggi, pertanto, si viene punti con una sanzione amministrativa che va da 5.000 a 30.000 euro.
Tuttavia, residuano ancora alcune ipotesi in cui tale comportamento continua a costituire illecito penale. E, poiché in proposito la legge è piuttosto generica, bisogna rifarsi alle indicazioni della Cassazione per comprendere, con maggiore precisione, quando gli atti osceni sono reato.
Cosa sono gli atti osceni in luogo pubblico?
La legge non dice cosa si debba intendere per «atti osceni». La giurisprudenza ha chiarito che non si tratta solo dell’atto sessuale in sé (si pensi alla coppietta) o dei preparativi all’atto stesso (toccamenti e simulazione, con esclusione dei soli baci), ma anche del toccamento lascivo di parti intime del proprio corpo, sia pure al di sopra dei vestiti. L’autoerotismo è quindi un atto osceno.
Anche l’esibizione in pubblico degli organi genitali rientra negli atti osceni e, in generale, qualsiasi comportamento esibizionistico attinente alla sfera della sessualità (si pensi a una persona che guidi completamente nuda o al passeggero che sporga le natiche alle altre auto, sia pure in gesto di scherno).
Più in generale, bisogna ricomprendere negli atti osceni, qualsiasi attività in grado di offendere il sentimento della morale sessuale e del pudore così da destare, in chi possa assistervi, disgusto e repulsione. A fronte di tale accezione molto ampia, c’è anche chi sostiene un’interpretazione più restrittiva, facendovi rientrare solo quell’attività che, di per se stessa, sia «gravemente lesiva» del pudore pubblico.
Esempi di atti osceni
A titolo di esempio, va ricordato che sono stati, in questi ultimi anni, ritenuti atti osceni e puniti come tali: il coito commesso in un giardino pubblico, la masturbazione commessa in una biblioteca pubblica; l’aver mostrato i genitali a una ragazza, standosene seduto in automobile ferma sulla pubblica via; l’aver toccato (sia pure al di sopra degli abiti) parti intime del corpo di una ragazza consenziente (se non fosse consenziente, si integrerebbe il reato di violenza sessuale).
Vetri appannati: è reato di atti osceni?
Gli atti osceni sono stati esclusi invece nel caso di chi ha avuto rapporti carnali con una donna in un’autovettura i cui vetri erano appannati al punto tale da non permettere di vedere cosa stesse accadendo all’interno, oppure i cui vetri erano stati accuratamente coperti dall’interno con stoffa o giornali.
Atti osceni: cosa si intende con “luogo pubblico”?
Elemento essenziale per punire gli atti osceni è che essi avvengano in luogo pubblico. Gli atti osceni consumati in casa propria o in un luogo privato (ad esempio un circolo) non costituiscono illecito.
È luogo pubblico quello continuamente libero e accessibile, di diritto o di fatto, a tutti o a un numero indeterminato di persone. Lo è ad esempio un vicolo cieco, un cunicolo di collegamento di due gallerie di autostrada, il ponticello sotto la ferrovia.
Si rientra negli atti osceni anche nel caso in cui l’azione si consumi nell’auto parcheggiata in orario notturno in una strada secondaria o anche buia, in quanto tali circostanze non eliminano in modo assoluto l’eventualità che i comportamenti osceni possano essere percepiti da occasionali passanti. Bisognerebbe avere allora l’accortezza di oscurare i vetri con giornali.
Il luogo è pubblico anche se completamente deserto, come un bosco. Conta la possibilità astratta che chiunque possa venire, per quanto remota sia tale possibilità.
È stato altresì escluso che possa essere ritenuto un luogo pubblico un’aperta campagna di proprietà privata e lontana da strade e da case.
Quando gli atti osceni sono reato?
Gli atti osceni continuano ad essere reato quando sono consumati in luoghi abitualmente frequentati da minori o nelle immediate vicinanze.
Secondo la Cassazione, vi sono due tipi di luoghi abitualmente frequentati da minori:
- quelli per vocazione strutturale;
- quelli per elezione specifica (ossia perché divenuti, convenzionalmente, luogo di ritrovo di minori).
Nella prima categoria troviamo, ad esempio, la scuola, o il cortile di questa, una sala giochi, un campetto di calcio, i luoghi di formazione fisica e culturale, gli impianti sportivi, le ludoteche, i giardini muniti di giostre per i bambini, di scivoli e altalene.
Secondo la giurisprudenza, invece, non è un luogo abitualmente frequentato da minori un parco pubblico dove non vi sono appositi spazi ricreativi per bambini.
Nella seconda categoria troviamo invece quei luoghi che, di volta in volta, sono scelti dai minori come punto di abituale incontro o socializzazione ove si trattengono per un termine non breve. Gli esempi possono essere: un muretto sulla strada pubblica, il parcheggio di un centro commerciale, i piazzali adibiti a luogo ludico, il cortile condominiale, le strade e le piazze notoriamente luogo di incontro di adolescenti, quella parte dei giardini pubblici specificamente attrezzata per lo svago dei bambini e dei ragazzi più piccoli (ad esempio per la presenza di una pista di pattinaggio o un campetto di pallavolo, o con uno stagno e le anatre), ivi comprese le zone ad esse limitrofe.
Cosa si intende per luogo abitualmente frequentato da minori
Come abbiamo appena visto, gli atti osceni, normalmente illecito amministrativo, diventano reato solo quando compiuti in un luogo abitualmente frequentato da minori o nelle immediate vicinanze. Oltre a tutti gli esempi appena fatti nel paragrafo precedente, è bene ricordare che, secondo la Cassazione, per «luogo abitualmente frequentato da minori» non si intende un sito semplicemente aperto o esposto al pubblico dove si possa trovare un minore, bensì un luogo nel quale, sulla base di una attendibile valutazione statistica, la presenza di più soggetti minori di età ha carattere elettivo e sistematico.
Il fatto che, in un vagone del treno o su una strada di città, possano potenzialmente trovarsi bambini non ne fa luoghi “abitualmente frequentati da minori”. Pertanto, in tali casi, non si verifica il reato ma si rientra nell’ambito dell’illecito amministrativo.
Cassazione: la differenza reddituale tra ex coniugi e la prova che la condizione reddituale deteriore della moglie è conseguenza delle rinunce ad occasioni lavorative migliori giustificano l'assegno divorzile
Assegno di divorzio
La ex moglie che lavora da anni, che percepisce uno stipendio assai inferiore rispetto alla pensione del marito e che in giudizio dimostra di aver rinunciato a occasioni di lavoro più redditizie per far fronte ai bisogni della famiglia, deve essere compensata per i sacrifici fatti. Queste le motivazioni che hanno portato la Cassazione, con l'ordinanza n. 12800/2022, ad accogliere il ricorso di una ex moglie a cui, in sede di appello, è stato negato l'assegno di divorzio.
Negato assegno di divorzio alla ex moglie
In sede di appello viene respinta l'impugnazione della ex contro la parte della sentenza di divorzio che le ha negato il riconoscimento dell'assegno di divorzio nella misura di almeno 400 euro.
Per il giudicante, stante la natura composita dell'assegno divorzile, ossia compensativa, perequativa e assistenziale, tra i due coniugi non è presenta una disparità economica tale da giustificare l'assegno anche perché la moglie lavora e di fatto è economicamente autosufficiente. In ogni caso il divorzio attenua il vincolo di solidarietà familiare.
Disparità e rinunce legittimano l'assegno
La moglie ricorre in Cassazione contro la decisione della Corte sollevando due motivi di doglianza.
- Con il primo contesta della decisione della Corte di averle negato il riconoscimento dell'assegno basandosi solo sulla mancanza di differenza reddituale tra i coniugi.
- Con il secondo invece invoca la nullità della sentenza per non aver tenuto conto, nonostante le prove documentali, della effettiva differenza economica tra i coniugi, visto che il marito ha una pensione di 2300 euro (ed è titolare di un immobile), mentre la stessa ha uno stipendio di 1135,00 euro (e deve pagare il canone di locazione dell'immobile in cui vive) e che la stessa ha rinunciato per la famiglia a occasioni di lavoro più redditizie.
Vanno compensate le rinunce professionali fatte per la famiglia
La Cassazione accoglie il ricorso in quanto i motivi sollevati dalla ex moglie, trattati unitamente, sono fondati.
Dopo avere richiamato i principi in materia di assegno divorzile della SU n. 18287/2018 la Cassazione evidenzia come la Corte d'appello, dopo avere richiamato la natura composita dell'assegno, abbia poi negato la misura sostenendo che con il divorzio il vincolo di solidarietà si attenui e che nel caso di specie, poiché non vi è una disparità reddituale l'assegno divorzile non spetti alla ex moglie.
Al riguardo la Cassazione fa presente che nel caso di specie la Corte abbia in realtà trascurato il fatto che la donna si sia trovata in una situazione reddituale deteriore rispetto al marito, dimostrando con prove documentali la rinuncia della stessa a occasioni di lavoro migliori per contribuire ai bisogni della famiglia, con un sacrificio di tipo economico, che deve essere compensato.
Occorre quindi riconoscere alla ex un assegno di divorzio tale da garantirle autosufficienza e indipendenza secondo un criterio di normalità, compensandola per il sacrificio e per le rinunce a occasioni professionali e reddituali fatte per la famiglia.